di Germano Morosillo
Scritti esoterici e essoterici
Come ci è noto dalla storia, non sappiamo quanto romanzata, di Strabone, gli scritti di Aristotele sono giunti a noi per una via alquanto tortuosa. Alla morte del filosofo di Stagira, avvenuta nel 322 a.C., i rotoli (il corrispettivo dei libri all’epoca) passarono a Teofrasto, suo successore alla guida dal Liceo, e da questi a Neleo, che li avrebbe portati da Atene alla natia Scepsi. Lì rimasero per due secoli nascosti in un sotterraneo, finché all’inizio del I secolo a.C. un bibliofilo, Apellicone di Teo, li acquistò, per quanto deteriorati, e li riportò ad Atene, facendone anche varie copie.
In questa opera di trascrizione Apellicone integrò di di suo le parti di testo mancanti o danneggiate. Pochi anni dopo, a seguito della conquista di Atene dell’86 a.C., Silla trasferì i manoscritti a Roma, dove furono studiati dal grammatico Tirannione di Amiso prima e dal filologo e filosofo aristotelico Andronico di Rodi poi.
Quest’ultimo, che fu anche scolarca del Liceo, approntò la prima edizione delle opere di Aristotele (e anche di Teofrasto) non rispettando la suddivisione originale, ma, come ci racconta Porfirio, raggruppando in trattati singoli i vari testi che affrontavano lo stesso tema. Questa edizione farà da base per tutte le successive.
Andronico non ci ha però tramandato tutti i testi di cui abbiamo notizia, ma solo una parte di quelli cosiddetti esoterici (interni, destinati alla scuola) o acroamatici (da akroasis, ascolto, vale a dire che solo gli studenti potevano udirne il contenuto). Lasciando da parte il dibattito sulla natura di questi scritti (ovvero se si trattasse di appunti oppure dispense preparate da Aristotele, di trascrizione da parte degli studenti delle sue lezioni, di opera collettiva comprendente le osservazioni di Aristotele e quelle degli studenti, e ancora, quali e quante interpolazioni e correzioni furono effettivamente apportate da Andronico) quel che è certo è che gli esoterici rappresentavano solo una parte della produzione del nostro filosofo. Sono però gli unici che possiamo leggere oggi.
L’altra parte è costituita dagli scritti essoterici o esterni, principalmente destinati alla pubblicazione e quindi a una diffusione non circoscritta a un’utenza di discepoli. L’elenco tramandatoci da Diogene Laerzio include diciannove opere, delle quali ci rimangono oggi solo titoli e frammenti, ovvero testimonianze di autori posteriori.
Furono redatte principalmente nel periodo di permanenza di Aristotele all’interno dell’Accademia platonica, fra il 367 e il 347 a.C., ma anche, successivamente, durante il periodo trascorso a Pella come precettore di Alessandro Magno. Differiscono dagli esoterici in particolare per la forma. Se la lettura dei testi a noi pervenuti, vista la loro natura di materiale non rifinito, risulta faticosa e talvolta anche noiosa, lo stesso non poteva dirsi degli scritti pubblicati che, dando fede alle testimonianze di Cicerone e Quintiliano, erano caratterizzati da eleganza e soavità. Si trattava principalmente, ma non solo, di dialoghi, ispirati a quelli platonici, dei quali in alcuni casi riprendevano anche il titolo. Come quelli facevano uso di miti e racconti leggendari. Erano redatti in forma letterariamente curata e, soprattutto, divulgativa, a differenza dei trattati caratterizzati da un rigore argomentativo apprezzabile solo dagli “addetti ai lavori”.
Più sfumata, rispetto a quella stilistica, la differenza di contenuto. È innegabile che negli scritti essoterici Aristotele appaia più dipendente da Platone rispetto alle opere della maturità, ma vanno anche rilevate in essi prese di distanze dalle dottrine del maestro che manifestano l’elaborazione di un pensiero autonomo. Su questo però, e in particolare sul clima di grande libertà che caratterizzava lo studio nell’Accademia, torneremo in altra occasione. Qui conta sottolineare che in nessuna circostanza Aristotele prese le distanze dalla propria produzione essoterica, che anzi viene richiamata più di una volta all’interno degli esoterici. Occorre quindi dare ai dialoghi il valore che, secondo lo stesso Aristotele, meritano, senza cedere alla tentazione di derubricarli a “peccati di gioventù”.
L’importanza del sogno
Nella serie di opere destinate alla pubblicazione rientra un dialogo che tratta il tema dell’immortalità dell’anima umana, Sull’anima, anche conosciuto come Eudemo. Eudemo di Cipro fu compagno di studi di Aristotele nell’Accademia. Militò a Siracusa nella fazione del defunto Dione, re illuminato che aveva sostenuto le idee politiche di Platone, contro quella del nuovo tiranno Callippo. Lì trovò la morte in battaglia, probabilmente nel 354 a.C. Secondo Chroust questo evento luttuoso originò la stesura sia del dialogo Sull’Anima di Aristotele sia della celebre Lettera VII di Platone. Tuttavia la redazione di quest’ultima sembrerebbe maggiormente legata alla morte di Dione, di poco precedente. Sull’anima si ricollega al platonico Fedone che, oltre a essere il testo fondante della metafisica occidentale, è fulgido esempio di consolatio mortis, genere letterario popolare nel mondo greco e anche romano (subito giungono alla mente le consolazioni di Seneca), che si propone di rendere più sopportabile a chi rimane l’assenza del defunto.
I primo frammenti del perduto dialogo aristotelico ci arrivano dal De Divinatione ad Brutum di Cicerone, che narra come Eudemo apprese con cinque anni di anticipo della propria morte e che questa va considerata come un ritorno a casa: “Egli (Aristotele) scrive che il suo amico Eudemo di Cipro durante un viaggio in Macedonia giunse a Fere, città della Tessaglia allora assai importante, ma assoggettata alla crudeltà del tiranno Alessandro. In quella città Eudemo si ammalò a tal punto che tutti i medici temettero per la sua vita. Sognò allora un bel giovane che gli disse che si sarebbe ripreso presto, che entro pochi giorni il tiranno Alessandro sarebbe morto, e che cinque anni dopo lui stesso, Eudemo, sarebbe tornato a casa. Aristotele scrive che le prime due predizioni si avverarono immediatamente: Eudemo si riprese e il tiranno fu ucciso dai fratelli di sua moglie. Ma verso la fine del quinto anno, quando il sogno lo aveva portato a sperare che sarebbe tornato dalla Sicilia a Cipro, Eudemo morì in battaglia a Siracusa. E così il sogno fu interpretato nel senso che quando l’anima di Eudemo lasciò il suo corpo, fece ritorno a casa” (De Divinatione ad Brutum, I, 25, 53).
In punto di morte
Il valore accordato al sonno e al sogno come condizione nella quale l’anima è in grado di evadere, per così dire, dalle catene del tempo e viaggiare nel passato e nel futuro, è confermato da due frammenti del quasi coevo dialogo Sulla filosofia. Il primo ci è tramandato da Sesto Empirico: “Quando l’anima, nel sonno, si raccoglie in se stessa, assume la sua vera natura, profetizza e preannuncia il futuro. Così è anche quando, nell’istante della morte è separata dal corpo. E dunque Aristotele approva anche quanto osservato da Omero, il quale rappresentò Patroclo che, nel momento della propria morte, presagì l’uccisione di Ettore, e Ettore che presagì la fine di Achille. Fu da tali eventi, dice, che gli uomini vennero a sospettare l’esistenza di qualcosa di divino, di ciò che è per sua natura affine all’anima” (Adversus mathematicos, III, 20-23). Il secondo è riportato ancora da Cicerone: “Dunque, quando il sonno ha liberato la mente dalla compagnia e dal contatto del corpo, allora essa si ricorda del passato, discerne il presente e prevede il futuro; infatti il corpo di colui che dorme giace come fosse il corpo di un morto, ma la sua mente è sveglia e viva … e così quando la morte sta per sopraggiungere è ancora più divina” (De Divinatione ad Brutum, I, 30, 63).
L’anima è insomma viva ventiquattro ore al giorno, non solo nel tempo della veglia; anzi proprio nel sonno è al pieno delle sue facoltà e lo è ancor di più in prossimità della morte. Lo conferma la testimonianza di al-Kindi: “Aristotele racconta di un re greco, la cui anima era rapita nell’estasi, che per molti giorni rimase come sospeso tra la vita e la morte. Quando tornò in sé, il re raccontò agli astanti varie cose nel mondo invisibile collegate a ciò che aveva visto: anime, forme e angeli.
Ne diede prova predicendo a tutti i suoi conoscenti quanto tempo sarebbe vissuto ciascuno di loro. Ciò che disse fu messo alla prova e nessuno eccedette la durata della vita che egli aveva assegnato. Profetizzò inoltre che dopo un anno si sarebbe aperta una voragine nel paese di Elis e dopo due anni si sarebbe verificata un’alluvione in un altro luogo; e tutto accadde come aveva detto. Aristotele così spiega la ragione di questo fenomeno: l’anima del re aveva acquisito questa conoscenza perché era stata vicina a lasciare il proprio corpo ed era stata in un certo modo separata da esso, e così vide ciò che vide. Quante più grandi meraviglie del mondo di lassù avrebbe visto, se davvero avesse lasciato il suo corpo!” (cod. Taimuriyye Falsafa 55).
Non essere mai nati
Da Plutarco apprendiamo che Aristotele si sarebbe spinto ancora oltre, affermando, nel narrare l’incontro tra Mida e Sileno, che meglio sarebbe non essere mai nati e, se nati, morire il prima possibile (Moralia, Consolatio ad Apollonium, 115 b-e).
È evidente qui il riferimento, oltre che all’orfismo di cui il platonismo era imbevuto, a passi della tradizione letteraria greca. Aveva scritto Teognide: “Non nascere è per gli uomini la miglior cosa, né vedere i raggi acuti del sole; ma, una volta che siamo nati, varcare al più presto le porte dell’Ade e giacere sotto un tumulo alto” (Elegie, 425-428). E Sofocle: “Molto meglio non essere nati. Ma, una volta nati, fare ritorno da dove si è venuti è destino ancora migliore” (Edipo a Colono, 1225-1228). Queste affermazioni, così come le riporta Plutarco, vanno comunque inquadrate alla luce dell’intento del dialogo, che come già ricordato è di tipo consolatorio.
Affermare che la morte è preferibile alla vita è uno sprone a non piangere chi se ne è andato e anzi a rallegrarsi per lui.
Secondo la testimonianza di Filopono, Aristotele, sulla scia di quanto già esposto da Platone nel Fedone, respinge poi la concezione dell’anima come accordo o armonia del corpo (ovvero che a ogni corpo, quasi fosse uno strumento musicale, corrisponde, dipendentemente dalla tensione e combinazione delle “corde” che lo compongono, una determinata armonia), obiettando che l’armonia ha un contrario, cioè la disarmonia, ma l’anima non ha contrari. La disarmonia del corpo può piuttosto identificarsi con la malattia e la bruttezza, e la sua armonia con la salute e la bellezza.
Ma l’anima non è nulla di ciò, prova ne è che anche il più brutto degli uomini, Tersite, aveva un’anima (In Aristotelis De Anima, 141.22-147.10). Insomma, non può accadere che l’anima muoia con il dissolvimento del corpo come l’armonia cessa di essere se non vi è strumento che la produce. L’anima non è un prodotto del corpo, ma anzi lo governa.
L’oblio
Se è vero che l’anima è immortale e quindi sopravviverà alla vita che sta conducendo ora e ad essa preesisteva, com’è possibile che non ricordi nulla di quanto accadutole in precedenza? Noi costruiamo la nostra identità sulla base delle esperienze acquisite: dunque, se quella memoria viene cancellata, chi siamo?
È opportuno richiamare qui due osservazioni. La prima è che, nel momento in cui si scompare o appare in questo piano di esistenza, non ha più molto senso parlare di prima o di dopo, visto che il tempo misura il durante di questa specifica vita, e non il tempo della Vita, che invece può essere considerata fuori dal tempo. La seconda è che il modo migliore per fare un’esperienza, ci riferiamo nuovamente a quella di una specifica vita, è assente di pregiudizi e preconcetti; conseguentemente, privo di eventuali precisi ricordi di un ipotetico passato (si veda, a titolo di esempio, la scena delle anime che, giunte ai Campi Elisi, bevono dal fiume della dimenticanza nel libro VI dell’Eneide di Virgilio). Aristotele, da parte sua, a chi vede nella mancanza di memoria dell’anima una prova della sua mortalità, risponde utilizzando l’analogia della salute e della malattia.
Riferisce Proclo: “Il divino Aristotele, inoltre, afferma il motivo per cui l’anima che da lassù arriva qui dimentica le cose che là aveva visto, e invece andandosene da qui ricorda lassù le esperienze di qui. Dobbiamo accettare l’argomento, poiché è lo stesso (Aristotele) a rilevare che durante il loro viaggio dalla salute alla malattia alcune persone dimenticano anche le lettere che avevano imparato, ma che nessuno sperimenta ciò quando passa dalla malattia alla salute; e la vita senza il corpo, essendo quella naturale per le anime, è come la salute; mentre la vita nel corpo, in quanto innaturale, è come la malattia. Perché là vivono secondo natura, ma qui contro natura” (In Platonis Rempublicam, II, 349, 13-23).
L’anima è Dio?
Nel Protreptico, che risale agli stessi anni dell’Eudemo, Aristotele accentua ulteriormente la dicotomia fra soprasensibile e sensibile, arrivando a paragonare la vita nel corpo al più orribile dei supplizi: “È parola ispirata degli antichi che l’anima stia scontando una pena e che noi viviamo per la punizione di grandi peccati.
La congiunzione dell’anima con il corpo è molto simile a questa: come si dice che i Tirreni spesso torturassero i prigionieri, legandoli vivi faccia a faccia con i cadaveri, adattando parte a parte, così l’anima sembra essere distesa e incatenata a tutte le membra sensibili del corpo” (Giamblico, Protreptico, VIII, 47.24-48.9).
Eppure giorno verrà in cui la tortura avrà fine. Il corpo perirà e, come abbiamo visto, l’anima tornerà alla sua patria. Ma di quale anima si tratta? Di quella individuale, del singolo uomo, Eudemo in questo caso, o piuttosto di un’anima (intelletto) impersonale, dalla quale tutti gli uomini sono illuminati solo per il tempo della vita corporea? In altre parole, l’anima individuale (sia essa intesa come intera anima o sola anima razionale) sopravvive o cessa di esistere alla morte del corpo? Se ci affidiamo agli scritti essoterici, è evidente che va privilegiata la prima ipotesi. Se invece spostiamo l’attenzione ai trattati esoterici, che presentano il pensiero più maturo di Aristotele, e in particolare al celebre libro III de L’anima, la questione si fa intricata, tanto da essersi imposta, dal IV secolo a.C. e fino ai giorni nostri, come una delle maggiori controversie nella storia della filosofia.
Per concentrare in pochissime righe un dibattito che nel corso dei millenni ha prodotto milioni di pagine, nei testi di scuola Aristotele sembrerebbe (il condizionale qui è davvero necessario) negare la sopravvivenza dell’anima individuale dopo la morte del corpo.
L’anima, da forma indipendente e provvisoriamente imprigionata nel corpo, com’era in Platone e nell’Aristotele essoterico, diviene ora atto del corpo, ad esso indissolubilmente legata.
Ciò che crediamo essere la nostra anima immortale, ovvero l’intelletto attivo, è in realtà una sostanza separata e unica per tutti gli uomini, e coincide con il primo motore immobile del libro XII della Metafisica (chiamiamolo anche, con una certa forzatura, Dio). Possiamo arrivare, pensandolo in atto, a identificarci con Dio e quindi essere noi stessi Dio e come Lui immortali, ma questo può accadere solo finché il corpo non si corrompe.
Insomma, il massimo cui possiamo ambire è un ossimoro: un’immortalità mortale. Tale è l’esegesi del commentatore per eccellenza di Aristotele, Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.), che verrà sostanzialmente
ribadita dieci secoli dopo dall’altro grande commentatore, Ibn Rušd, maggiormente noto col nome di Averroè. È pacifico che si tratta di una interpretazione, alla quale se ne contrappone una altrettanto persuasiva, sostenuta in particolare da San Tommaso d’Aquino, che invece rivendica, sempre sulla scorta del testo aristotelico, l’immortalità dell’anima, attribuendo a ciascuna anima individuale l’intelletto attivo.
Ma cosa effettivamente Aristotele avesse inteso comunicare con le sue criptiche affermazioni sull’intelletto “separabile, impassibile, non mescolato, immortale ed eterno” non lo sapremo mai. La delusione di non conoscere la risposta è ampiamente compensata dal fatto che il dubbio instillato dal filosofo continua ad alimentare le
nostre domande e la nostra ricerca. E quindi a mantenerci vivi.
Bibliografia essenziale:
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Aristotelis qui ferebantur librorum fragmenta, a cura di Valentin Rose, Teubner, Lipsia 1886.
Aristotelis opera (ex recensione I. Bekkeri, ed. 2), III: Librorum Deperditorum Fragmenta, a cura di Olof Gigon, De Gruyter, Berlino e New York 1987.
BERTI Enrico, Aristotele, dalla diallettica alla filosofia prima, Bompiani, Milano 2004.
BOS A. P., The relation between Aristotle’s lost writings and the surviving aristotelian corpus, in Philosophia Reformata, vol. 52, no. 1, 1987, pp. 24–40.
CHROUST Anton-Hermann, Eudemus or On the soul: a lost dialogue of Aristotle on the immortality of the soul, in Mnemosyne, vol. 19, no. 1, 1966, pp. 17–30.
CHROUST Anton-Hermann, The psychology in Aristotle’s lost dialogue Eudemus or On the soul, in Acta Classica, vol. 9, 1966, pp. 49–62.
JORI Alberto, Aristotele, Bruno Mondadori, Torino 2003.
MORAUX Paul, L’Évolution d’Aristote in Aristote et Saint Thomas d’Aquin: journées d’études internationales, Publications univeristaires de Louvain, Lovanio 1957.
PEROLI Enrico, Una nuova interpretazione delle opere perdute di Aristotele, in Rivista di filosofia neo-scolastica, vol. 83, no. 4, 1991, pp. 495–511.
dello stesso autore leggi anche 〉〉 Diogene e i cani filosofi