Boezio, la felicità e la libertà

di Germano Morosillo

Boezio

llustrazione medievale di Boezio

Che cos’è la felicità? Perché c’è il male? Siamo liberi di scegliere cosa fare della nostra vita, oppure è Dio, o il destino, a decidere per noi? E cos’è l’eternità? A questi interrogativi tenta di dare spiegazione la Consolazione della filosofia, opera di straordinaria influenza nella storia del pensiero medievale, che con la stessa forza continua a parlare, come si conviene ai “classici”, alla contemporaneità.

Il De consolatione philosophiae, redatto presumibilmente tra il 524 e il 525 d.C. è lo scritto più noto di Severino Boezio, filosofo e politico romano nonché martire e, dal 1883, santo della Chiesa cattolica. La sua è una storia di irresistibile ascesa e caduta rovinosa.

Vita e opere

Anicio Manlio Torquato Severino Boezio nacque a Roma, da nobile famiglia, intorno al 480. A quel tempo Roma, dopo la deposizione del giovane Romolo Augustolo nel 476, era sotto il controllo degli Eruli e, dal 493, degli Ostrogoti di Teodorico che la governavano, non senza tensioni, per conto dell’imperatore romano d’oriente.

I difficili rapporti tra Ostrogoti e Bizantini erano accentuati dal fatto che i primi, oltre ad accettare di malavoglia la tutela bizantina, professavano una fede cristiana ariana e i secondi cattolica. Non bastò quindi la fine dello scisma tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente, ricomposto nel 519, a normalizzare i rapporti.

Boezio perse il padre in giovane età, per essere quindi accolto nella casa di Simmaco, senatore e uomo di grande cultura, che successivamente gli diede in sposa la figlia Rusticiana.

Il nostro filosofo, vista anche la sua posizione sociale privilegiata, poté dedicarsi allo studio approfondito delle arti che poi verranno chiamate liberali, ovvero quelle del trivio (grammatica, logica, retorica) e del quadrivio (aritmetica, astronomia, geometria, stereometria).

Riuscì inoltre ad approfondire la conoscenza del greco, circostanza che consentì all’Occidente latino di conoscere i testi della logica aristotelica, appunto nella traduzione e nel commento di Boezio. Appare improbabile, come invece si credeva un tempo, che possa aver studiato nelle due maggiori scuole del tempo, Atene ed Alessandria, entrambe platoniche.

Tuttavia il platonismo rimane, insieme al cristianesimo, il punto di riferimento principale del suo pensiero, del quale anche l’aristotelismo, come porta d’accesso a Platone, fu componente essenziale.

A livello politico la sua carriera, dopo il consolato del 510, raggiunse il culmine nel 522 con la nomina a magister officiorum, la carica più importante nel governo di Teodorico, le cui competenze andavano dalla direzione generale dei servizi dello Stato, al controllo delle guardie del re, alla politica estera.

Miniatura di Boezio che insegna in prigionia, 1385 circa

Per quanto si è potuto ricostruire, questa nomina scatenò una guerra interna alla corte di Teodorico: il referendarius Cipriano accusò di cospirazione Boezio, che finì agli arresti. Le notizie sul processo (un processo farsa, lo si definirebbe oggi, senza udienze né contraddittorio) ci arrivano principalmente dall’Anonimo Valesiano, nome collettivo che indica gli scritti di almeno due autori ignoti collocabili tra IV e, per la parte che ci interessa, VI secolo.

L’Anonimo Valesiano descrive anche l’esecuzione di Boezio, avvenuta, forse nel 526, nell’Ager Calventianus, nei pressi di Pavia, e portata a termine con modalità assai cruente: “Gli legarono una corda intorno alla fronte e la strinsero a lungo, fino a fargli scoppiare gli occhi. Poi, dopo averlo torturato, lo finirono a bastonate”. Secondo un’altra tradizione fu decapitato.

Rimase così appena abbozzato il mastodontico progetto che Boezio si era ripromesso di portare a termine: tradurre e commentare i trattati di logica, morale e fisica di Aristotele, successivamente fare lo stesso con tutti i dialoghi di Platone e mostrare la sostanziale concordanza fra i due autori. Riuscì solo a tradurre, e in parte a commentare, i testi dell’Organon (le opere di logica aristoteliche), nonché l’Isagoge di Porfirio, oltre a scrivere alcuni trattati logici e teologici.

Nel 725 le spoglie di Boezio verranno traslate nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, dove si trovano tuttora. Dante definirà Boezio “anima santa”, collocandolo nel cielo del sole, fra gli spiriti beati.

La consolazione della Filosofia

Composta durante il periodo di prigionia, la Consolazione (ma sarebbe più appropriato, visto il suo contenuto, definirla esortazione) è scritta in forma di dialogo, con alternanza di prosa e versi.

Il primo dei cinque libri si apre con il nostro filosofo che, all’interno della sua cella, lamenta il rovescio di fortuna che lo ha portato dai più alti onori all’imminente condanna a morte. La presenza delle Muse sembra trasmettere al morituro un relativo sollievo, fino a che appare in scena una “donna dal viso venerabile con occhi splendenti”, che senza tanti complimenti le scaccia.

Inizialmente Boezio, che era piombato in una sorta di letargia, non riconosce la nuova arrivata, che però presto si rivela come la compagna della sua giovinezza: la Filosofia, che gli comunica di essere venuta per risvegliarlo e guarirlo.

La P e la TH ricamate sulla lacera veste della consolatrice sembrano richiamare la suddivisione canonica della filosofia, pratica e teoretica. Allo stesso tempo TH può anche indicare thanatos, la morte, che segna la liberazione dalle catene del corpo e l’ingresso nella vera vita.

Mescolando elementi stoici e aristotelici, innestati sull’onnipresente base platonica, Filosofia sottopone l’anima del filosofo a una autentica periagoge (rotazione, conversione al vero), su basi, è bene ricordarlo, puramente razionali. Sembra dunque assente, in quest’opera, la componente religiosa del cristiano Boezio, che tuttavia emerge ad esempio nel libro III con una citazione del biblico Libro della Sapienza.

Preliminarmente Filosofia rimprovera a Boezio di aver gettato le armi che lei stessa gli aveva consegnato nel tempo della giovinezza e di cui oggi potrebbe fare buon uso. Successivamente ricorda l’infelice epilogo delle vite di tanti filosofi (Anassagora, Socrate, Zenone di Elea, Seneca) dovuto al fatto che, decidendo di seguire lei, apparvero del tutto estranei alla nefandezza che sembra governare il mondo, e quindi meritevoli di condanna.

Boezio osserva che sarebbe cosa giusta se gli Stati fossero governati dai filosofi o i governanti si dedicassero alla filosofia, come auspicato da Platone nella Lettera VII, ma il dato di realtà dice altro. Appare mostruoso che sotto lo sguardo di Dio “ogni scellerato possa mettere a segno contro l’innocente tutto ciò che gli viene in mente”.

A questo quadro sconfortante, Filosofia replica sottolineando l’ignoranza, o meglio la dimenticanza, di Boezio, che accecato dalla rabbia e fiaccato dalle avversità non sa più chi è, e con lo stesso giudizio erroneo considera felici i potenti. Utilizzando un classico argomento stoico, Filosofia sottolinea la necessità di accettare con equilibrio tutto ciò, di gioioso o tragico, che va a impattare sulla nostra vita: volere ciò che accade.

Boezio replica che proprio l’aver vissuto periodi di grande prosperità gli rende insopportabile la disgrazia attuale (un corrispettivo letterario lo risconteremo secoli dopo nella già citata Commedia dantesca, quando in Inferno V, 121-123, Francesca lamenta che non esiste “maggiore dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”).

Ma questa afflizione, fa notare Filosofia, deriva da un fraintendimento: cercare nelle cose esteriori la felicità, che invece è dentro di noi, e non comprendere che ogni vicenda personale va collocata entro un quadro universale, dove solo trova senso.

La sorte propizia ci travia proprio perché ci lega a beni ingannevoli e ce ne rende dipendenti; quella avversa, di contro, ammaestra. La vera rispettabilità non consiste nel ricoprire cariche prestigiose o nella popolarità, ma nel vivere rettamente facendo i conti con la propria coscienza e, in ultima analisi, con Dio. In Dio si trova la vera felicità: ogni persona felice è, in un certo senso, Dio, partecipando della sua perfezione e tendendo all’unità in sé stessa e con Esso.

Che Dio sia l’essere perfetto lo si evince dall’osservazione del mondo, dove tutto, secondo vari gradi, è dominato dall’imperfezione. Ma l’imperfezione presuppone una perfezione, pena il regresso all’infinito che Aristotele aveva esplicitato nel libro lambda della Metafisica a proposito del Motore Immobile.

Dio è – con una definizione che anticipa di sei secoli Anselmo d’Aosta – ciò di cui non può essere pensato nulla di maggiore. L’essere perfetto. Coincide con l’Uno e l’Uno con il Bene, come insegnano i platonici. Il bene, e in ultima analisi il Bene, ovvero Dio, è ciò a cui tutti aspiriamo come oggetto di desiderio. Rivolgerci a Dio ci consente di sollevarci dalla zavorra del corpo e dalle sofferenze dell’anima.

Questa conversione relativizza, per così dire, i nostri problemi. Non li fa scomparire, non elimina il male, ma li pone in una diversa prospettiva, quasi ora ne fossimo spettatori e non vittime. L’identificazione del bene con l’essere perfetto ha come corollario che l’uomo, privo di quella stessa perfezione, non sia totalmente volto al bene ma possa rivolgersi al male ed esserne afflitto: il male è quindi, in accordo con la linea tracciata dai platonici e approfondita in chiave cristiana da Agostino, mancanza di essere.

L’uomo, in quanto imperfetto, ricerca la perfezione del sommo bene: i malvagi, però, se ne allontanano seguendo non la via della virtù, ma quella disordinata delle passioni, che finiscono per corromperli, anzi per annullarli. Ribadisce Filosofia che distogliendo lo sguardo dal bene, i malvagi cessano di essere, perché l’allontanarsi dal bene comporta eo ipso l’allontanamento dall’essere. E non è neanche vero che chi fa il bene talvolta non riceve ricompensa, perché la ricompensa è già nel fare il bene e nell’essere nel bene. I malvagi invece sono due volte infelici: quando scelgono il male e quando lo realizzano. Filosofia conclude il suo intervento richiamandosi al Gorgia platonico: i malvagi sono felici quando subiscono un castigo, perché allora ricevono il bene rappresentato dalla giusta punizione. Dunque se si è malvagi e anche impuniti, si è doppiamente infelici. Pur dicendosi persuaso dall’argomentazione, apparentemente paradossale, di Filosofia, Boezio dubita di poter trovare un solo uomo (compreso forse se stesso) che la trovi credibile. Ma, gli viene obiettato, dal momento che giudichiamo non meritevoli di odio quelli che sono malati nel corpo, allo stesso modo dovremmo compatire, non odiare, chi è malato nell’anima.

Provvidenza e eternità

Jean Victor Schnetz, L’addio del console Boezio alla sua famiglia, olio su tela 1826 Museo degli Agostiniani, Tolosa

La questione di fondo è però ancora in sospeso. Dio governa il mondo ordinandolo, ma il fatto che spesso assegni cose spiacevoli ai buoni e piacevoli ai malvagi, mostra al contrario che a dominare sono caso e disordine.

Tuttavia l’obiezione è frutto, ancora una volta, di un errore di prospettiva: ovvero giudicare le vicende del mondo dal proprio punto di vista particolare, ovvero di singolo uomo, anziché abbracciare la totalità delle cose.

Quest’ultima è la prospettiva dell’uomo sinottico (da syn-opsis, vista d’insieme) e ovviamente di Dio. Dio agisce come Provvidenza: tutto ciò che avviene nel mondo rientra in un disegno (che nel tempo si esplica come fato), all’interno del quale ogni accadimento, anche quelli apparentemente insensati, trovano posto.

Ciò che ci sembra assurdo ha una ragione e Dio ci fornisce la possibilità di coglierla. Questo, però sembrerebbe in contraddizione con quanto prima affermato. Infatti, se Dio è Provvidenza (termine che nell’originale latino pre-videntia o pro-videntia veicola anche il significato di vedere prima, ovvero sapere in anticipo cosa accadrà) è anche prescienza ed è in grado di determinare in anticipo, nei minimi dettagli, ciò che accadrà.

Dio conosce il futuro, dunque il futuro è predeterminato: infatti, se il futuro fosse diversamente da come Dio lo vede, allora Dio sarebbe fallibile alla stregua di un uomo. Ma ciò non può essere, altrimenti Dio non sarebbe Dio.

Dunque il futuro è necessario e non contingente. Ma se tutto è predeterminato, allora non ci sarà posto per la libertà umana. Questo metterebbe sullo stesso piano il buono e il cattivo, visto che il buono compirà azioni buone e il malvagio azioni malvagie, necessariamente e non per scelta. Eppure la scelta esiste.

Gli uomini possiedono il libero arbitrio. Dio sa quali azioni saranno compiute da ogni singolo uomo, ma non le determina. La distinzione, operata da Boezio sia nella Consolazione che nel trattato teologico De Trinitate, poggia sui concetti di tempo e eternità. Il tempo, con il suo continuo movimento dal passato al presente, è la dimensione umana. Quella divina è l’eternità.

Naturalmente siamo pronti a considerare l’eternità come un tempo senza fine, ma pur sempre tempo. Non è così. Con il termine sempiternitas o perpetuitas, Boezio indica l’infinita durata del mondo, che contiene un era e un sarà. Dio invece è aeternitas, la sua essenza sta nell’è atemporale, l’eterno presente nel quale passato e futuro non procedono in successione, ma sono concentrati in un unico punto o istante.

L’eternità di Dio, osserva Boezio con definizione divenuta celebre, è “il possesso totale, perfetto e simultaneo di una vita interminabile (senza inizio né fine)”. Dio, per il quale il prima e il dopo non hanno significato alcuno, sa da sempre e per sempre che, nella dimensione umana del tempo, una specifica azione verrà compiuta: e verrà compiuta perché quell’uomo avrà voluto compierla.

Dio conosce sia l’azione sia la volontà dell’uomo, ma è l’uomo a volere e l’uomo ad agire. Questa soluzione, che verrà confermata nella successiva tradizione agostiniana (Scoto Eriugena, Riccardo di San Vittore, Alessandro di Hales), toglie all’uomo l’alibi della predestinazione e lo responsabilizza, facendone l’artefice del proprio destino.


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