Inaugurerà il prossimo 21 settembre presso la Fondazione Kadist di San Francisco la personale dell’antropologa e artista italiana Fiamma Montezemolo. La mostra intitolata The Secret è il frutto della collaborazione con l’Italian Institute of Culture (IIC) di San Francisco, che ha prodotto una delle due installazioni, Neon Afterwords, ed è co-curata da Marina Pugliese nell’ambito del programma di mostre ed eventi Mapping The City.
Pochi artisti come Fiamma Montezemolo hanno recentemente indagato così propriamente e personalmente quel punto d’incontro tra metodo antropologico ed espressione artistica. Il suo lavoro si è formalizzato principalmente attraverso lo strumento del video e la realizzazione d’installazioni che descrivono quel concetto di limite e confine tra due professioni e in generale tra ciò che separa antropologicamente diversi saperi e culture. L’artista che è nata in Italia ma ha vissuto costantemente dal 2002 tra Messico e Stati Uniti, parallelamente al suo ruolo di accademico in diverse università (Rice University a Houston, UCLA di Los Angeles e Università di Tijuana) ha iniziato ad avvicinarsi alla pratica artistica, professionalizzando questo percorso al San Francisco Art Institute.
Il suo background ibrido e la decisione di analizzare le questioni dell’arte sotto la lente d’ingrandimento del metodo antropologico non sono tuttavia nuove ed estranee alle due discipline, come ricorda l’artista che ci parla dei suoi riferimenti: “Joseph Kosuth nel 1975 pubblicava the Artist as Anthropologist e molta antropologia dagli anni ’80 in poi si apre alla letteratura, l’arte, al visuale.
Si capisce subito che le due discipline hanno avuto da sempre a che fare l’una con l’altra. Il precedente classico è il surrealismo etnografico e i miei maggiori riferimenti sono state figure ibride come M. Leiris di cui tanto hanno parlato quelli che considero i miei maestri: James Clifford, George Marcus, Renato Rosaldo e Mary Louise Pratt. Specie dagli anni ’80, l’oggettività antropologica intesa in senso classico come quella disciplina che cerca un remoto nativo da rappresentare non è più sostenibile. Sono vari anni ormai che l’antropologia è andata rivedendo le sue proprie categorie etnocentriche e poco riflessive per includere una autocritica radicale a certe sospette ingenuità precedenti”.
Continuando, a proposito dell’evoluzione del ruolo contemporaneo dell’antropologia: “Oggi nessun antropologo oserebbe obiettare il fatto che un’antropologia ‘nativa’ o autorappresentata (in cui l’antropologia visuale ha avuto grande rilevanza) siano divenuti dei capisaldi per tutti. Antropologia urbana e post-colonialismo hanno da tempo fatto irruzione nella disciplina antropologica generale. Cosi come l’antropologia visuale in genere ha contribuito a un fondamentale ampliamento delle metodologie rappresentative. Io stessa a 23 anni sono andata in Chiapas con un altro antropologo visuale, Massimo Tennenini e abbiamo girato un video, ‘Senza volto’, (Faceless, 1996 ndr) molto engagé, militante, sullo zapatismo e le componenti di genere ed etnicità contenuti in esso”.
I riferimenti ai testi e il background intellettuale di Fiamma Montezemolo non potevano non diventare elementi strutturali nelle sue installazioni, è così che Three Ecologies (precedentemente esposta alla Galleria Magazzino di Roma) fa riferimento al testo omonimo dello psicanalista e filosofo Félix Guattari, che tratta il tema della fragile coesistenza di una ecologia sociale, ambientale e mentale. Nello spazio creato dall’artista, il visitatore si trova di fronte a un grande tappeto Kilim dal quale spuntano dei cactus e adagiato su della corteccia di pino sulla quale ci si può stendere. Le tre “ecologie” sono qui rappresentate dai tre strati: quello naturale, quello culturale (simboleggiato dal tappeto) e quello mentale dello spazio neutro e concettualizzato della galleria. La qualità sinestetica dell’opera se da un lato invita il visitatore a parteciparvi, invadendola con il proprio corpo, annusando il profumo della corteccia di pino e guardando le geometrie tipiche del tappeto tradizionale, dall’altro introduce elementi respingenti come le spine del cactus e l’instabilità di questo appoggio. “La mia idea era di portare un elemento conflittuale nel discorso di certa arte relazionale”.
L’ispirazione per Neon Afterwords, la nuova opera realizzata per la personale da Kadist, proviene invece dalla lettura di Borges, dal breve racconto L’Etnografo del 1969, nel quale un giovane ricercatore viene inviato in una riserva indiana per studiare il “segreto” dei rituali sciamanici, ben presto però la ricerca scientifica cede il posto ad una vera iniziazione ai misteri di quei riti esotici. Carpito il segreto, il futuro etnografo si troverà nell’impossibilità di tradurre questo sapere nei limiti che il linguaggio scientifico presenta. Nell’opera della Montezemolo alcuni passaggi del racconto sono realizzati come scritte luminose, con cancellature e omissioni, che da un lato sottolineano l’impossibilità di esprimere quel sapere attraverso la scrittura e dall’altro sono un omaggio a grandi artisti della tradizione italiana come Merz, Isgrò e Fontana. “È una storia molto simile alla mia: sono andata a fare la mia ricerca di campo più lunga in assoluto (quasi 6 anni) e ne sono uscita meno etnografa forse e più antropologa e artista perché il segreto è irraccontabile o forse non è poi cosi rilevante. Io ho scritto due monografie in italiano, una sullo zapatismo e una sul chicanismo dopo altre due ricerche molto più brevi di quest’ultima sul confine, eppure della frontiera non ho mai veramente scritto in modo sistematico una monografia. È per me divenuto nel tempo un segreto irraccontabile e irrappresentabile attraverso il linguaggio antropologico accademico più classico”.
A proposito di confine e frontiere, Fiamma Montezemolo ha tradotto la sua esperienza di studiosa artista e testimone di quel in quel territorio così cruciale tra Messico e Stati Uniti in uno dei lavori video-essay più intensi e personali sul concento di confine che si siano visti negli ultimi anni, confluito nella video-installazione Tracce (2012) nel quale l’artista trasforma la barriera che traccia il confine tra i due stati in un vero e proprio interlocutore: “Ho passato solo 24 ore a filmare il muro e l’ho fatto aprendomi al caso riprendendo quel che trovavo senza predisporre le scene anteriormente. Volevo captare la vita di questo colosso nella sua materialità e affettività davvero come se fosse la vita di un giorno di una persona problematica. Ed è così che intravedo una certa ironia del muro; pensa alla scena con delle persone che in Messico fanno body building mentre dalla parte USA costruiscono e perfezionano altre parti del muro. Una certa tragicità/speranza; penso qui alle due persone che per completa casualità abbiamo filmato mentre tentavano l’attraversamento e una quasi dolorosa poeticità come le piante che dal Messico quasi lo sovrastano. Tutti questi aspetti emergono in un solo giorno della sua vita”.
Nel video il panorama distopico e il gigante di metallo (che un tempo fu la pista di atterraggio del George H. W. Bush nella prima Guerra del Golfo) si alterna alle riflessioni della voce che parla al muro:“la voce è di donna, per me non poteva essere diversamente, poiché il muro mi è sempre parso un elemento estremamente machista, nazionalista nel senso peggiore del termine. La voce appartiene a una donna di Tijuana che vive e lavora negli USA”.
Tracce, così come i lavori che saranno presentati alla Fondazione Kadist testimoniano ancora una volta l’impossibilità e il desiderio di scegliersi il proprio luogo di origine, piuttosto che vederselo assegnato dal caso, proponendo una riflessione su tematiche che spaziano da emigrazione, esilio (volontario e involontario), creatività, indisciplina, distanza e quelle scelte che costituiscono la nostra identità.
Fonte: Vogue Articolo di Riccardo Conti