In quel tempo c’era una donna ad Alessandria il cui nome era Ipazia
di Paolo Aldo Rossi
In quel tempo c’era una donna ad Alessandria il cui nome era Ipazia[1]
Aveva raggiunto tanta cultura ed educazione (paideia) da oltrepassare di molto tutti i
pensatori del suo tempo; subentrò nella scuola platonica, ripristinata
da Plotino, insegnando a chi lo voleva tutte le scienze filosofiche.
Per questo motivo affluivano da lei da ogni parte tutti coloro che
aspiravano a ragionare in modo filosofico.
Socrate Scolastico, Storia Ecclesiastica VII, 15
Ipazia di Alessandria, figlia di Teotecno (figlio di Dio), ponderando un nomen omen (Ὑπατία sta per «eminente» o «eccelsa»), ossia la sublime per bellezza, per signorilità ed educazione, per cultura e sapere, morì per questo orrendamente trucidata da parte dei cristiani fanatici mandati dal loro vescovo Cirillo per “ὕβϱις”, ossia “prevaricazione” o “tracotanza”, un’azione criminosa svolta allo scopo di umiliare il nemico, la cui causa è data non da un vantaggio ma dal godimento che l’autore dell’atto traeva dalla scelleratezza di quel che stava facendo, mostrando la sua egemonia, fatta con violenza e brutalità, sulla vittima ben più eccellente ed eminente, però colpevole di dimostrare in ciò l’insignificanza e irrilevanza del nefando seviziatore.
Ammiano Marcellino (Antiochia di Siria, 330 – Roma, 400 circa) ricordava, da pagano, la setta dei cristiani, appena uscita dalle persecuzioni, ma senza alcuna animosità, da storico: “Non ci sono belve tanto infeste agli uomini da essere più dei cristiani addirittura esiziali a se stessi” (Res Gestae, XXII, cap. 5, par. 4)[N]ullas infestas hominibus bestias, ut sunt sibi ferales plerique Christianorum expertus.
Con “rescritto di tolleranza” del 313 d.C. a Milano, Costantino per l’Occidente e Licinio per l’Oriente concedevano a tutti i cittadini dell’Impero, e quindi ovviamente anche ai cristiani, la libertà di venerare le proprie divinità e quindi di dare attuazione alle misure contenute nell’editto di Galerio del 311, con il quale era stato definitivamente posto termine alle persecuzioni. “… ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset, quod quicquid divinitatis in sede caelesti, nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac propitium possit existere” (Lattanzio, De mortibus persecutorum, capitolo XLVIII). Costantino non proibì mai il culto pagano e dichiarò rispetto verso i credenti della vecchia religione e, quando divenne cristiano (e se poi lo divenne), portò avanti l’idea di tolleranza verso tutti(e d’altra parte non è possibile affermare se la sua conversione sia avvenuta sinceramente o per calcolo politico).
Diocleziano aveva promulgato quattro editti (303-304) contro i cristiani (gli ultimi), ma il 30 aprile 311 Galerio aveva emanato a Nicomedia un editto in cui riconosceva la nuova religione e Costantino e Licinio, per “la tranquillità comune e pubblica” e “l’interesse alla pace religiosa”, avevano confermato l’obbligo che “fosse assicurato il rispetto e la venerazione della Divinità” qualunque essa fosse, per tutti e in particolare per i cristiani, “in modo che qualunque potenza divina e celeste esistente possa essere propizia a noi e a tutti coloro che vivono sotto la nostra autorità”. Costantino morì a Nicomedia (22 maggio 337) ma le cose non mutarono, anche sotto il nipote Giuliano il Filosofo (ultimo imperatore pagano) che i cristiani presentarono come un persecutore e apostata, anche se nel suo regno, in realtà, vi fu tolleranza nei confronti di tutte le religioni, comprese le diverse dottrine cristiane.
All’inizio del suo regno Teodosio (379 d. C.) insieme agli altri due Augusti, Graziano e Valentiniano II, promulgò nel 380 l’editto di Tessalonica, con il quale il credo niceno diveniva la religione unica e obbligatoria dello stato (Codex Theodosianus, 16, 1.2) e per quanto riguarda Alessandria (392) i decreti anti-pagani (Codex Theodosianus, 16, 10. 10 e 16.10.11) in cui il sacrificio agli dei pagani era equiparato al crimine di lesa maestà e quindi alla pena di morte.
Era tutto capovolto e rovesciato e così il terribile vescovo Teofilo di Alessandria diede inizio alla distruzione del Serapeo (“la religione dei templi ad Alessandria e nel santuario di Serapide fu dispersa al vento”.
Eunapii, Vitae sophistarum, Vita di Eustazio, VII, 11, 3-5, Roma, 1956, 39-39) di cui dice Ammiano Marcellino: “E’ così adorno di atrii con amplissimi colonnati, di statue che sembrano vive e di opere di ogni genere, che non v’è nulla sulla terra di più fastoso all’infuori del Campidoglio” (Res Gestae XII, 12). E non solo il tempio, ch’era meta di pellegrinaggi da Roma e da Costantinopoli, ma anche la grande biblioteca di Alessandria fu incendiata e distrutta dai monaci di Wadi el Naarum, fanatici e faziosi, guidati da un papas cui non mancavano enormi risorse sia d’uomini che di mezzi economici. Il tempio venne demolito dalle fondamenta per cui dice Eunapio: “lasciarono solo il pavimento e solo perché le pietre erano troppo pesanti” e questo “per zelo e solerzia di Teofilo, l’imperatore ordinò di distruggere i templi degli elleni in Alessandria e questo avvenne per l’impegno dello stesso Teofilo” (Socrate Scolastico, Storia Ecclesiastica V, 16.). A parlare sono rispettivamente: uno degli ultimi filosofi ellenistici (Eunapio lo ierofante del culto eleusino [347– 414] e Socrate σχολαστικός [380-440], cristiano, teologo e avvocato.
Quando morì Teofilo, nel 412, che “fece tutto quello che era in suo potere per recare offesa ai misteri degli elleni”, fu innalzato al trono episcopale di Alessandria suo nipote Cirillo: questi, uomo violento e autoritario,ebbe “molto più potere di quanto ne avesse avuto il suo predecessore” e “si accinse a rendere l’episcopato ancora più simile a un principato di quanto non fosse stato al tempo di Teofilo”.
Nell’accezione che con il nuovo papas “la carica episcopale di Alessandria prese a dominare la cosa pubblica oltre il limite consentito all’ordine episcopale” (Socrate Scolastico, cit., VII, 7). Perseguitò e tormentò i katharoi (i puri, chiudendo le loro chiese e sequestrando i loro beni), i messalliani (asceti penitenti dediti alla povertà, dando fuoco ai loro conventi), gli ebrei (cacciandoli dalla città in cui erano la minoranza maggioritaria e dalle sinagoghe diventate chiese cristiane), i pagani (gli elleni, sterminandoli e massacrandoli, cfr, Ipazia) come d’altronde faceva con i suoi nemici cristiani (condannando il vescovo siriano Nestorio e deponendo l’arcivescovo e teologobizantino Giovanni Crisostomo) e i “miscredenti” (Oreste prefetto di Alessandria il quale “s’indignò molto per l’accaduto e provò un gran dolore perché una città tanto importante era stata completamente svuotata di esseri umani” – Socrate Scolastico, cit., VII, 7) e addirittura con tutti quelli che non la pensavano come lui ideando una prima soluzione finale per gli ebrei. In una lettera inviata al monaco Teodoreto, vescovo di Cirro, si legge di questo “faraone cristiano”: “Insomma finalmente è morto quest’uomo terribile. Il suo commiato allieta i sopravvissuti ma sicuramente affliggerà i morti.”
Questa è storia documentata, dalla quale esce un Cirillo ridimensionato a politico mascalzone e la vicenda di Ipazia un evento da criminali e non da santi.
Ma quando parla il Papa “ex cathedra”[2], l’episcopus servus servorum Dei,è infallibile e chi non ci crede è oggetto di maledizione e di bando dalla comunità religiosa: ἀνάϑεμα. Nel Concilio di Costantinopoli II del 553 d.C. il papa Vigilio non era presente (anzi era stato prima messo a domicilio coatto e poi scomunicato, alla fine lasciato a Roma); al suo posto Eutichio presiedette il sinodo e decretò: “Cirillo che è tra i santi, quello che ha predicato la retta fede dei cristiani”; nel 1882 il terribile vescovo fu proclamato Santo e Dottore della Chiesa, “dottore dell’Incarnazione”, da Papa Leone XIII[3] e lo riafferma, a più di un secolo di distanza, Joseph Ratzinger: “seguendo le tracce dei Padri della Chiesa, incontriamo una grande figura: san Cirillo di Alessandria … fu più tardi definito custode dell’esattezza – da intendersi come custode della vera fede – e addirittura sigillo dei Padri” (Benedetto XVI. Udienza Generare Piazza San Pietro Mercoledì, 3 ottobre 2007).
Sebbene la comunità dei fedeli Copta, Romana e Bizantina lo venerasse come tale (ma all’epoca ἄγιος era il puro o venerando eon il sanctus, ossia il “sancito” dalla suprema autorità religiosa), il cattolicesimo lo ha proclamato Dottore della Chiesa solo a un millennio e mezzo di distanza e da parte di un papa che non brillava certo per tolleranza e carità, seguito da un altro pontefice (Benedetto XVI) che è un grande teologo e quindi di Cirillo conosceva gli scritti dottrinari (http://www.documentacatholicaomniaeu/20300370-0444/Cirillus Alexandrinus, Sanctus.html), ma non ha studiato la vita di questo “papas” violentissimo e furfante. Vediamo questa storia utilizzando fonti contemporanee a Ipazia o fonti più tarde (al massimo del X secolo) che riportavano i fatti avvenuti all’inizio del V secolo, documentati come fatti storicamene avvenuti, avendo presenti i libri persi ma presenti nella memoria degli autori citati[4].
Oreste era il praefectus augustalis Alexandreae et Aegypti, ossia il governatore della provincia romana d’Egitto scelto direttamente dall’imperatore a cui senza intermediari rendeva conto e, unico caso, aveva l’imperium militiae, ovvero il comando sulle truppe cittadine, ma anche il vescovo aveva la sua milizia privata, i parabolani[5] e gli esaltati suoi sostenitori alessandrini:[6]
Alcuni monaci dei monti di Nitria, il cui spirito ribolliva dai tempi di Teofìlo, che iniquamente li aveva militarizzati …, ed erano da allora divenuti zeloti, decisero nel loro fanatismo di combattere in nome di Cirillo
Il vescovo aveva la legge dalla propria parte: la costituzione del 4 febbraio 384 dove il clero veniva a essere soggetto al solo foro ecclesiastico. Nel 414, nel corso di un’assemblea popolare, taluni ebrei denunciarono al prefetto Oreste un certo “maestro di grammatica Ierace” quale suscitatore di contrasti e discordie; questi era un sostenitore del vescovo Cirillo, “il più attivo nel suscitare gli applausi nelle adunanze in cui il vescovo insegnava”, ma secondo Giovanni di Nikiu, il vescovo copto, che è dalla parte di Cirillo: “un cristiano che possedeva comprensione ed intelligenza e che era solito dileggiare i pagani”[7]. Ierace venne arrestato e torturato, al che Cirillo reagì minacciando i capi della comunità ebraica, e gli ebrei reagirono a loro volta assassinando alcuni cristiani. Era la solita storia fra ebrei e cristiani e le ragioni erano soprattutto economiche, legate al monopolio dei trasporti marittimi che l’imperatore aveva concesso ad ambedue le comunità, mettendole così l’una contro l’altra. Cirillo prese la palla al balzo, facendo bandire ed esiliare tutti gli ebrei da Alessandria (si parla di 100.000 persone):
Gli ebrei che dal tempo di Alessandro il Macedone abitavano questa città dovettero allora tutti emigrare, spogliati dei loro beni, e si dispersero chi qua, chi là.
Il praefectus augustalis si rivolse, come era nei suoi poteri, all’imperatore e rifiutò i tentativi di accomodamento del vescovo alessandrino anche perché la soluzione non c’era per via del fatto che “una città tanto importante era stata completamente vuotata di esseri umani”.
A quel punto Cirillo, avendo schiacciati tutti i suoi nemici, doveva attaccare Oreste e renderlo inoffensivo. Oreste era un cristiano (e anche Giovanni di Nikiu, pur nella sua parzialità, lo afferma, ossia “aveva smesso di andare in chiesa, com’era in precedenza sua abitudine”) che per ragioni di stato doveva essere neutrale, ma non poteva far finta di niente di fronte a un simile pogrom contro gli ebrei.
Cirillo riunisce i parabolani dallo spirito arroventato e il popolino i quali entrano in azione in massa contro il corteo di Oreste:
… usciti in numero di circa cinquecento dai monasteri e raggiunta la città, si appostarono per sorprendere il prefetto mentre passava sul carro. Accostatisi a lui, lo chiamavano immolatore [σφαγεῖς] ed elleno, e gli gridavano contro molti altri insulti. Egli allora, sospettando un’insidia da parte di Cirillo, proclamò di essere cristiano e di essere stato battezzato dal vescovo Attico. Ma i monaci non badavano a ciò che veniva detto e uno di loro, di nome Ammonio, colpì Oreste sulla testa con una pietra.
A quel punto, essendo stato ferito il praefectus augustalis, la suprema autorità civile, si radunarono i cittadini di Alessandria che cacciarono i parabolani e imprigionarono Ammonio conducendolo da Oreste che lo fece torturare:
… rispondendo alla sua provocazione pubblicamente con un processo secondo le leggi, spinse a tal punto la tortura da farlo morire. Non molto tempo dopo rese noti questi fatti ai governanti. Ma Cirillo fece pervenire all’imperatore la versione opposta … Comunque chi aveva buon senso, anche se cristiano, non approvò l’intrigo di Cirillo. Sapeva, infatti, che Ammonio era stato punito per la sua tracotanza e non era morto sotto le torture per costringerlo a negare Cristo.
Il vescovo fece sistemare la salma di Ammonio in una chiesa, di fronte ai propri partigiani, e modificatogli il nome in Thaumasios, l’ammirevole, lo innalzò al rango di martire cristiano, come se fosse deceduto per sostenere e testimoniare il proprio credo religioso. Cirillo, avendo visto che nulla avveniva secondo i suoi piani, “si adoperò per far dimenticare al più presto l’accaduto con il silenzio”; e così modificò i suoi programmi.
Qui inizia l’invidia, perché non è solo una calunnia, ma una vera e propria “hybris”,una condotta biasimevole perché dannosa e nociva dell’onore altrui, ossia un qualcosa che esce dalla sfera dell’uomo per ricadere in quella delle bestie.
Cirillo si accorge che Oreste non può essere affrontato e aggredito personalmente essendo il rappresentate dell’imperatore, per cui si configurava il delitto di lesa maestà e quindi fatto martire Ammonio – Thaumasios perché aveva testimoniato Cristo (a colpi di pietra!) mette tutto a tacere cambiando obiettivo.
E’ qui che compare Ipazia per la prima volta nella tragica vicenda che avrà come fine il suo massacro, la quale:
… fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva … s’incontrava alquanto di frequente con Oreste, l’invidia mise in giro una calunnia su di lei presso il popolo della chiesa, e cioè che fosse lei a non permettere che Oreste si riconciliasse con il vescovo»
(Socrate Scolastico, VII, 15)
Ed è qui che vicenda si complica: si dice che la filosofa pagana facesse di tutto per impedire che il praefectus augustalis si rappacificasse con il vescovo, usando addirittura le arti magiche. Tutto questo non è riportato espressamente da fonti cristiane o pagane contemporanee, ma soltanto dai fautori di Cirillo che credono in questa accusa ingiustificata, proprio perché l’imputazione di magia comporta la pena di morte per il codice Teodosiano e la persecuzione religiosa contro i pagani è quasi sempre mascherata da oppressione del crimine di magia[8] dove il popolino è convinto di farsi giustizia da solo.
Questa credenza o meglio pregiudizio è in circolazione fra il popolo e nell’ambiente dei cirilliani tanto da diventare presso la chiesa copta la versione veritiera e Giovanni di Nikiu, il rettore dei vescovi dell’Alto Egitto, la riprende nel VII secolo dando di Ipazia una testimonianza, da un punto di vista settoriale, di cui molti cattolici, ancora oggi, sono convinti[9].
Invece Socrate Scolastico afferma che “Ftonos personificato si levò in armi contro di lei …”(VII, 15). Ftonos era il demone dell’invidia e della gelosia che genera la sofferenza fatta nascere non solo dall’errore umano (il quale non fa altro che affrettare il percorso verso la catastrofe) quanto piuttosto da un sovrapporsi di questo con l’invidia degli dei che scombina ogni progetto deliberato.
Nonno di Panopoli, ultimo poeta ellenistico e contemporaneo di Ipazia e di Socrate (però schierato con Cirillo), scrive le stesse parole:
Ma la Gelosia, spiando il letto di Zeus, signore del ciclo, e la gestazione di Semele da cui nascerà un dio, s’ingelosisce di Bacco, anche se è ancora nel ventre materno e incapace d’amore, tutta presa dal sentimento che ispira, è colpita dal suo stesso veleno[10].
Era il mese di marzo del 415 e correva la Quaresima, tempo di digiuno e di penitenze, e i parabolani erano infuriati e furibondi; fra loro circolava e si diffondeva l’insinuazione e l’accusa infondata che la “maga-filosofa-pagana” fosse l’unica responsabile del dissidio fra le due massime autorità alessandrine:
E quegli zeloti, quegli esseri dallo spirito incandescente, il cui capo era un certo Pietro il Lettore, concepirono un piano e tesero un’imboscata alla donna una volta che stava rientrando a casa. La tirarono giù dalla carrozza e la trascinarono fino alla chiesa che prende il nome dal cesare imperatore. E qui la spogliarono delle vesti, la massacrarono usando cocci aguzzi, la fecero a brandelli. E trasportati quei resti al cosiddetto Cinaron, li diedero alle fiamme. E fu una non piccola infamia questa compiuta da Cirillo e dalla chiesa di Alessandria. Perché assassìni e guerriglie e cose simili sono qualcosa di totalmente estraneo allo spirito di Cristo. (Socrate Scolastico, VII, 15 – PG 67 col 769)
A parlare non è un pagano, un giudeo, un eretico o un ariano come Filostorgio, un coevo che dice “La donna fu fatta a brandelli per mano di quanti professavano la consustanzialità” (Historia Ecclesiastica, Patrologia Graeca, vol. LXV) o un monofisita del VI secolo come Giovanni Malala che dice “avuta licenza dal loro vescovo, gli alessandrini massacrarono e bruciarono Ipazia” (Ioannis Malalae, Chronographia de Gruyter, Berlin)ma un avvocato cristiano contemporaneo, vicino alla Corte di Costantinopoli, disturbato e disgustato dalla chiesa di Cirillo (come, peraltro, ce ne furono tanti). L’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene, Damascio (480 ca –550 ca) era andato intorno al 485 ad Alessandria, quando era ancora forte il ricordo di Ipazia e di Cirillo, il quale “si rose a tal punto nell’anima che tramò la sua uccisione, in modo che avvenisse il più presto possibile, un’uccisione che fu tra tutte la più empia” [πάντων φόνων ἀνοσιώτατον] (Damascio, Vita Isidori, Hildesheim, Olms 1967, 79, 24-25).
Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione, passò presso la casa di Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia il filosofo che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che potesse immaginare.
Un giorno che Ipazia come suo solito tornava a casa da una delle sue pubbliche apparizioni, le piombò improvvisamente addosso una moltitudine di uomini imbestialiti. Questi veri sciagurati, incuranti della vendetta dei numi e degli umani, massacrarono la filosofa. E mentre ancora respirava un po’ le cavarono gli occhi. Fu una macchia enorme, un abominio per la loro città. E l’ira dell’imperatore si sarebbe abbattuta violentissima su di loro, se Edesio non fosse stato corrotto, così da sottrarre i macellai [σφαγεῖς = immolatori] alla loro pena. (Suida Lexicon, Adler, Lipsia, Teubner 1967-71 IV pag. 644, 32 e 645 1-12).
Dopo il massacro di Ipazia fu avviata un’indagine alla Corte di Costantinopoli dove governava di fatto Elia Pulcheria, sorella di Teodosio II (401-450), un imperatore di 12 anni, che era molto vicina alle posizioni del vescovo (era cristiana devota e aveva fatto voto di castità) e quindi Cirillo riesce a ottenere l’insabbiameno per la disonestà e la corruzione dei funzionari imperiali (Damascio, 81, 7-8.). Giovanni Malalas afferma che “gli alessandrini, col permesso del vescovo, bruciarono Ipazia, un’attempata donna, [aveva fra i 45 e i 55 anni] filosofa insigne, da tutti considerata grande” (Cronografia 14 – PG 97, 536).
Certamente la versione degli eventi data dai partigiani di Cirillo e giunta alla Corte dell’Imperatore era ben diversa: questi utilizzarono la tradizionale accusa di magia per la quale c’era la pena di morte nel diritto romano (principalmente durante l’età imperiale)[11].
Vediamo cosa dice, riprendendo il tutto da fonti del V secolo, il vescovo copto Giovanni di Nikiu (cfr. nota 9):
… apparve ad Alessandria una filosofa femmina, una pagana di nome Ipazia, che dedicava tutto il suo tempo alla magia, agli astrolabi e agli strumenti musicali, e abbindolava molte persone con i suoi inganni satanici. E il governatore della città la onorava esageratamente; perché lei aveva sedotto anche lui con la sua magia. E così lui aveva smesso di andare in chiesa, com’era in precedenza sua abitudine. E non solo, ma aveva portato dalla parte di lei molti credenti. E lui stesso riceveva i miscredenti nella propria dimora.
Ipazia, “la donna pagana che aveva stregato il popolo della città e il prefetto con i suoi incantesimi” doveva essere messa a morte, ma essendo Oreste “sedotto anche lui con la sua magia” e dagli inganni satanici dovevano punirla i credenti guidati da un chierico irreprensibile anche sotto l’aspetto dottrinario:
Una moltitudine di credenti in Dio si levò sotto la guida di Pietro il Lettore – uomo che su Gesù Cristo professava dogmi ineccepibili sotto ogni aspetto – e presero a ricercare la donna pagana che aveva stregato il popolo della città e il prefetto con i suoi incantesimi. E quando vennero a sapere in che luogo si trovava, si misero in marcia per andare a punirla e la trovarono seduta su un alto scranno. E dopo averla strappata dalla sua cattedra la trascinarono con loro fino a portarla nella grande chiesa chiamata Cesareo. Si noti che questo avveniva nei giorni del digiuno. E tutti presero a strapparle le vesti, la e poi la fecero trascinare [dietro un carro] attraverso le strade della città, finché morì. Allora portarono il suo corpo in un luogo chiamato Cinaron e lo diedero alle fiamme. E tutto il popolo cristiano circondò il patriarca Cirillo e lo acclamò “nuovo Teofilo”, perché aveva liberato la città dagli ultimi residui di idolatria.
Filostorgio ci racconta “La donna fu fatta a brandelli” [διασπασθῆναι] e Socrate “la massacrarono usando cocci aguzzi e la fecero a brandelli” [διασπάω = fare a pezzetti, dilaniare] e Damascio (riportato da Suda) “una folla di uomini spietati e feroci che non ‘temono né la punizione divina né la vendetta umana’[Omero] la aggredì e la tagliò a pezzetti, e mentre ancora respirava un po’ le cavarono gli occhi, commettendo così un atto oltraggioso e disonorevole contro il loro paese d’origine” La morte di Ipazia è una vera ed propria θῦσία, un rito sacrificale, una cerimonia sacra celebrata sull’altare del dio cristiano nel suo tempio (una volta chiamato il Cesareo, ma poi cristianazzato). Il vocabolo ἱερεύς (hiereus) significa tanto il sacerdote quanto il sacrificatore di offerte, ma per i cristiani è il “ministro di Dio” che usa il pane e il vino, mentre il termine sphageis [σφαγεῖς]“sacrificare” o quello di thysia [θῦσία] lo si usa presso i parabolani di Cirillo come uno dei peggiori insulti contro i pagani elleni. Il termine ἱερεῖονsta per vittima “immolata” quanto “macellata” e hiereion designa sia la vittima del sacrificio che l’animale da macello, ma diversamente lo sphagion è un animale sgozzato e fatto a pezzi, ma di cui non si consumano le carni.
Inoltre per gli “elleni” (e tutti i greci dall’età omerica a quella ellenistica”) il macellaio che accoltella e squarta le vittime sacrificali ha lo stesso nome del sacrificatore che presiede al rito religioso, nonché del cuoco incaricato di cuocere le carni delle vittime dopo il sacrificio: ossia il magheiros che ha la sua radice etimologica condivisa il termine magia.
Ma chi sono questi uomini che partecipano e portano a compimento quell’orrendo sacrificio? Dice Eunapio dei parabolani: “ma non erano neppure uomini, se non in apparenza perché facevano la vita da porci e compivano apertamente e assecondavano crimini innumerevoli e innominabili” (Vita di Eustazio VI, 11, 35). Sono i partigiani del vescovo di Alessandria il quale ben sa, perché in gioventù faceva parte di questi setta di monaci, che basta lasciarli sfogare. E’ la vittoria completa di Cirillo: un’intimidazione diretta verso Oreste non soltanto come vendetta nei confronti della morte di Ammonio, ma essendo Ipazia colpevole di professare le arti magiche atte ad abbindolare e stregare l’intero popolo, la massa dei credenti avrebbe messa in atto una esecuzione legittima anzi un sacrifico rituale.
Dopo il massacro della filosofa il risentimento e l’indignazione di Oreste non riuscì a ottenere che l’ira dell’imperatore (minorenne) si abbattesse “violentissima” su gli assassini se Edesio non fosse stato corrotto e Pucheria non fosse così devota a Cirillo. Ma storia, se ha assolto il vescovo sul piano giudiziario, non lo ha fatto su quello politico ed ha elevato Ipazia a una delle donne più eminenti di tutti i tempi.
Fonti antiche:
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Ammiano Marcellino. Res gestae, ed. C.V. Clark, Ammiani Marcellini rerum gestarum Libri qui supersunt, Berolini, 1910; trad. it. A. Selem, Le storie, Torino, Utet, 1973.
Cirillo di Alessandria, Homilia VIII, in Jacques Paul Migne, Patrologia Graeca, vol. LXXVII.
Codex Theodosianus, ed. Th. Mommsen, P. Meyer (Berlin 1905), rist. Hildesheim, Weidmann, 1990; trad. ingl. C. Pharr, The Theodosian Code, Princeton, Princeton University Press, 1952
Eunapio = Eunapii Vitae sophistarum, ed. I. GiangrandeTypis Publicae Offìcinae Polygraphicae, Romae 1956. trad. ingI. W.C. Wright, Philostratus and Eunapius. The lives of the Sophists, London, Heinemann, Cambridge, Harvard University Press, 1921
Esichio di Mileto, Fragmenta, in «Fragmenta Historicorum Graecorum», Paris, Didot 1841-1870.
Eusebio, Historia Ecclesiastica, ed., G. Bardy, Eusèbe de Césarée. Histoire ecclésiastique, (I-IV), Paris, Les Editions du Cerf, 1952).
Damascio, Vita Isidori, Hildesheim, Olms 1967. Damascius. The Philosophic History, testo, trad. e note di P. Athanassiadi, Athens, Apamea Cultural Association, 1999.
Filostorgio, Historia Ecclesiastica, in J. P. Migne, Patrologia Graeca, vol. LXV; Epitome in Fozio, Bibliotheca, 8 voll., Paris, Les
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De sacerdotio, (I-V), ed. A.M. Malingrey, Jean Chrysostome. Sur le sacerdoce, Paris, Les Éditions du Cerf, 1980
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Note
[1] Socrates Scolasticus, Kirchengeschichte, G. C. Hansen, Academie Verlag Berlin, 1995. La Storia ecclesiastica fu pubblicata per la prima volta in greco da Robert Estienne, Codex Regius 1443 (Parigi, 1544). L’edizione critica più recente del testo è stata curata e pubblicata nella serie Griechischen Christlichen Stiftsteller.
[2]La Pastor Aeternus è una Costituzione dogmatica sulla fede cattolica del Concilio Ecumenico del 18 luglio 1870 (Pio IX)/Capo IV “Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e
definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa. Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema.”
[3] Riprende la Non expedit di Pio IX, rendendo impossibile la partecipazione dei cattolici italiani alle votazioni e ai suffragi, cioè alla vita politica dello Stato. E’ l’arcinemico di Giordano Bruno: quando la capitale era messa a ferro e fuoco per la statua del filosofo in Campo dei Fiori, chiamò a raccolta i fedeli dicendo che “non possedeva un sapere scientifico rilevante”.
[4] I contemporanei sono: il cristiano Socrate Scolastico (380 – 440 ca), il filosofo pagano Eunapio (347- dopo il 414 ca), l’ariano erudito Filostorgio (368 – 439 ca), il vescovo e neoplatonico Sinesio di Cirene (370 ca – 413), il teologo Teodoreto (393 – 457 circa) … il filosofo Damascio (462 – 538 d.C.), il vescovo copto Giovanni di Nikiu (inizio VII sec.), la Suda o Suida, un lessico-enciclopedia del X secologreco bizantino.
[5] Chierici che si dedicavano inizialmente alla cura dei malati, alla sepoltura dei morti e a opere di misericordia. La loro scelta e il loro controllo erano messi in pratica dal vescovo che ben li conosceva per via del fatto che, prima di assumere la cattedra alessandrina, Cirillo aveva abitato a lungo tra loro nel deserto e poi li aveva assimilati nel corpo dei parabalani (inizialmente i membri di una confraternita nella Chiesa delle origini, poi usata dal vescovo di Alessandria). Erano in 5/600 e il Codex Theodosianus li aveva messi sotto la supervisione del Praefectus Augustale, pur essendo agitatori politici dalla parte del “papas”, che riunivano con loro il popolo cristiano. Non avevano né ordini né voti, ma erano elencati tra il clero e godevano di privilegi e delle immunità degli ecclesiastici e costituivano anche la guardia del corpo del vescovo.
[6] Socrate Scolastico, 7.13.14 pp. 357-360 Hansen – il dissidio fra Cirillo e Oreste
[7]Giovanni di Nikiu = Chronique de Jean, éveque de Nikiou, texte éthiopien publié et traduit, a C. di H. Zotenberg, Paris 1883; The Chronicle of John, Bishop o/ Nikiou, trad. ingl. e note di R.H. Charles, London-Oxford 1916 (fotorist. Evolution Publishing, 2007).
[8] Ad es. Cod. Theod. IX 16,1-2 (320); XVI 10,1 (320/321); IX 16,3 (321).
[9]- Giovanni di Nikiu = Chronique de Jean, éveque de Nikiou, texte éthiopien publié et traduit, a C. di H. Zotenberg, Paris 1883; The Chronicle o/John, Bishop o/ Nikiou, trad. ingl. e note di R.H. Charles, London-Oxford 1916 (fotorist. Evolution Publishing, 2007).
[10]Nonno di Panopoli, Dionisiache, a cura di Gigli Piccardi D., BUR, Rizzoli, Milano 2004, pp. 117 e sgg.
[11] Si va dalla lex Cornelia de sicàriis et venèficis promulgata nell’81 a.C. dal dittatore Silla, per cui i colpevoli potevano essere impunemente aggrediti e messi a morte da qualsiasi cittadino, al Codex Theodosianus del 437, che è una fonte selettiva che riunisce tutte le leggi anche costantiniane che prevedono la pena di morte per i colpevoli di arti magiche ed eresia.
fonte aispes.net
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