La nostra curiosità che si è incredibilmente ristretta

RICK WEISS – The Washington Post – estratto dagli Schwartzreport –

Traduzione a cura di Ulisse Di Corpo

Spazio20“Bones, c’è qualcosa la fuori”, dice il capitano James T. Kirk al medico di bordo Leonard McCoy nel film del 1979 “Star Trek”. Quella “cosa” si scopre essere una immensa nube di intelligenza con un oggetto al centro – un oggetto che si fa chiamare “Veeger.”

“Veeger” – nei fatti “V…ger” – si scopre essere la sonda Voyager, lanciata dalla Terra circa 300 anni prima. Le lettere “oya” sono cancellate e il computer ha da tempo dimenticato il suo nome intero. Ma come l’ultimo orologio Timex, funziona ancora.

Per secoli la sonda ha seguito i suoi semplici comandi: osservare e registrare qualsiasi cosa che trova. In questo modo è diventata, in base alle parole di Spock, “un’intelligenza altamente sviluppata” che non può smettere di “evolversi, imparare e cercare.”

Ho affittato di nuovo il film la settimana scorsa dopo aver appreso che la NASA ha smesso di finanziare il progetto e sta staccando la spina ai Voyager – due sonde della stessa dimensione del Maggiolino VW, zeppi di strumenti che fin dal 1977 hanno mandato fiumi di dati alla Terra e che stanno adesso ai limiti esterni del sistema solare. Il film mi ha convinto in modo profondo che questa missione, proprio adesso che si trova a 8 miliardi di miglia di distanza dalla Terra, è ancora più interessante, più illuminante di quanto potessero immaginare i mortali che l’hanno realizzata.

Che senso ha smettere di ascoltare l’oggetto più distante che sia stato creato dall’uomo – strumenti che dopo tre decenni stanno adesso iniziando a registrare, per la prima volta, le pieghe dello spazio interstellare?

Sarebbe stato meno deprimente se la mossa di uccidere i Voyager fosse stata isolata. Ma, la macchina scientifica degli Stati Uniti è piena di prove del fatto che gli americani hanno perso di vista il valore della ricerca non-applicata, la ricerca guidata dalla curiosità – la ricerca aperta che non sa esattamente dove sta andando, ma che così spesso porta a grandi conquiste. In ogni settore della ricerca, la richiesta di prodotti, commerciabili e dai quali si può trarre un profitto – che possono essere distribuiti – è diventata la forza motrice della ricerca. Invece di essere di tipo espansivo ed esplorativo, la scienza – specialmente dopo l’11 settembre – sembra essere sempre più limitata e difensiva.

Prendiamo l’Agenzia del Pentagono per i progetti avanzati della difesa, probabilmente il principale finanziatore di ricerche scientifiche esplorative, che ad esempio ha portato alla creazione di Internet. I responsabili di questa agenzia hanno affermato, avanti al Congresso, che stanno spostando l’attenzione delle loro ricerche da ricerche astratte a ricerche orientate a degli obiettivi specifici sempre più segreti.

In modo analogo, in geologia, gli scienziati hanno per anni cercato finanziamenti per installare migliaia di sensori che possano creare una rete di ascolto capillare in grado di insegnarci come la crosta terrestre si stia muovendo sotto i nostri piedi. Al momento il Congresso ha autorizzato una spesa di 170 milioni di dollari per i prossimi 5 anni, ma solo 16 sono stati erogati e solo 62 dei 7.000 sensori necessari sono stati finanziati. A causa dello tsumani che ha colpito i paesi meridionali dell’Asia, nel 2006 il programma riceverà maggiori finanziamenti – nonostante il bisogno di prevedere tali disastri anche qui da noi.

Lo scorso febbraio il dipartimento dell’energia ha annunciato la fine dei finanziamenti del BteV, uno degli ultimi laboratori negli Stati Uniti in cui viene studiata la fisica delle alte energie. Questo settore, che un tempo era dominante negli Stati Uniti, promette di portare alla scoperta, nei prossimi anni, di alcune delle particelle fondamentali del mondo subatomico, tra cui la prima particella supersimmetrica – una particella che sembra poter spiegare la grande quantità di materia dell’universo, ma che al momento non si è ancora riuscita a trovare.

”Sembra che abbiamo raggiunto un punto in cui le persone sono così schiacciate dai loro problemi, da renderle indifferenti a nuove scoperte”, dice Kei Koizumi dell’American Association for the Advancement of Science, sottolineando che i soli settori della ricerca nei quali si assiste ad un aumento dei finanziamenti sono la difesa e la sicurezza nazionale. In modo particolare la National Science Foundation, l’istituto che dà il maggiore sostegno alle scienze fisiche e all’educazione scientifica, ha subito tagli continui, e adesso gli si chiede quando e come i suoi lavori porteranno a dei guadagni.

Perché ci dovremmo preoccupare dei risultati e dei profitti prima dell’inizio della ricerca? La ricerca fine a se stessa non è forse un lusso. Ci sono pochi soldi. I terroristi stanno provando ad ucciderci. E che cosa guadagneremo dalle particelle supersimmetriche?

Innanzitutto ci sono ragioni pratiche da considerare. Almeno la metà della crescita economica degli ultimi 50 anni è stata una conseguenza di innovazioni scientifiche, stando alle affermazioni della Task Force di Future of American Innovation, una coalizione di due dozzine di organizzazioni che spaziano dall’industria all’università e che sono preoccupate per la riduzione della leadership scientifica e ingegneristica degli Stati Uniti.

Gli esempi abbondano. La ricerca esplorativa sul DNA dei batteri ha dato, in modo inatteso, l’avvio all’industria delle biotecnologie, un motore economico enorme alla base dell’attuale era d’oro della medicina e della biologia. La scoperta dei transistor, del laser, della teoria dell’informazione che sono stati alla base della rivoluzione informatica. Albert Einstein spesso affermava che il suo lavoro sulla teoria generale della relatività era troppo arcano perché potesse avere alcuna applicazione pratica. Nonostante ciò, senza di essa non avremmo oggi il sistema satellitare utilizzato dai GPS che dicono alle macchine e alle bombe intelligenti dove si trovano e dove devono andare.

John Bahcall, professore di scienze naturali all’Istituto per gli Studi Avanzati di Princeton, racconta la storia di Michael Faraday, lo scienziato del 19esimo secolo, che quando rispondeva agli scettici in merito al valore della sua recente scoperta, l’elettricità, rispondeva, “Qual è il valore di un bambino appena nato?” Faraday di certo non aveva alcuna idea della televisione o di Internet, ma sapeva che quando si trova qualcosa di fondamentale, diventerà di valore fondamentale.

Ma allora che possiamo dire delle sonde Voyager 1 e 2, che secondo gli scienziati potrebbero continuare a trasmettere dati fino al 2020? A che cosa ci possono servire? I loro strumenti hanno mandato indietro 5.000 miliardi di bits di dati, 80.000 fotografie, tra cui spettacolari foto di Giove, di Saturno, di Urano e di Nettuno e di innumerevoli lune, 22 delle quali non erano conosciute. Hanno studiato l’impatto del vento solare nei punti estremi del nostro sistema solare, e stanno rilevando per la prima volta la composizione del resto dell’universo. Ma come si può tradurre tutto ciò in soldi?

Probabilmente non ci riusciremo. Ma, ciò solleva la seconda domanda, meno pratica – ma forse più importante – alla base del sostegno di tali imprese: la comprensione dell’universo e la conoscenza fine a se stessa è la misura del successo di una civiltà. La nostra capacità di produrre informazioni su chi siamo e su quale sia la nostra collocazione nel cosmo dovrebbe essere fonte di orgoglio per tutti noi. Le nostre scoperte scientifiche sono il metro di misura per tutti noi, che i nostri figli utilizzeranno per costruire.

Che cosa è accaduto alla sete di conoscenza che ci ha ispirati, come specie e come nazione, quando abbiamo lanciato le Voyager? Che cosa è accaduto alla qualità che secondo Spock era alla base della immensa conoscenza di Veeger: “La curiosità insaziabile”?

Rannicchiati in una postura difensiva, stiamo soffrendo di una mancanza di fiducia e di ottimismo. Ottimismo e fiducia che prima ci avevano permesso di avventurarci e di raggiungere l’ignoto. Allo stesso modo, ci siamo dimenticati, del valore dell’apertura, senza preconcetti. In breve, stiamo perdendo, una delle più vecchie tradizioni della scienza: osservare, come dei monaci, con mente aperta e senza uno scopo.

Venti anni fa ho sentito la registrazione dell’astronauta Rusty Schweickart che più di ogni altra cosa mi ha fatto raggiungere questa verità. Schweickart descriveva una passeggiata spaziale che fece mentre era in orbita attorno alla Terra. Era legato ad una corda mentre fluttuava nello spazio. Il suo lavoro era quello di fare fotografie, ma la macchina fotografica era difettosa, fatto che gli diede qualche minuto senza niente da fare, mentre il controllo della missione stava cercando di risolvere il difetto. Per la prima volta, in modo emozionale e personale, si è trovato a pensare all’incomprensibile realtà nella quale si trovava: fuori nella spazio, all’estremità di una corda, l’uomo più lontano dalla Terra.

In quel momento si rese conto dell’immenso privilegio che gli era stato dato e quale grande responsabilità avesse nel riportare ciò che vedeva e sentiva. Quindi guardò e ascoltò. Cercò di capire. Guardò il pianeta verde e blue, la sua casa, e apprezzò d’un tratto tutto ciò che avesse mai conosciuto. L’arte, la storia, le emozioni umane erano solo una piccola parte di un universo più grande ancora da conoscere. In quel momento ha promesso a se stesso di lavorare per dare ispirazione ad altri e di servire il pianeta nel conseguimento di tutto ciò che è ancora sconosciuto.

Oggi le sonde Voyager ci stanno restituendo una visione ancora più ampia, mandandoci indietro le prime fotografie del nostro sistema solare visto dall’esterno. Siamo troppo occupati, impauriti, o distrutti per ascoltare? O guarderemo indietro all’universo con l’umiltà di chi è consapevole di quanto c’è ancora da imparare, la curiosità e l’intenzione della scoperta?

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