La trasmigrazione dell’anima tra mito e fede
di Andrea De Pascalis
Le esperienze condotte in tempi moderni con l’ipnosi regressiva, da cui talvolta sembrerebbero scaturire ricordi di vite precedenti dei soggetti trattati, e hanno rilanciato, dandole sostanza parascientifica, l’idea che l’anima dell’individuo passi attraverso un ciclo di esistenze successive. È l’ennesimo ritorno di un’idea antichissima, tra le più suggestive tra quante ne sono state elaborate nella storia dell’uomo per spiegare la classica domanda: “Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”.
Tuttavia, proprio perché si tratta di un’idea antichissima, affiorata in epoche diverse in differenti contesti culturali, essa non ha carattere univoco, assume anzi una pluralità di significati, e non può essere liquidata come si trattasse di un’unica “dottrina della reincarnazione”. Ciò si rispecchia già nel modo in cui il fenomeno viene definito. Vediamo, ad esempio, il modo differenziato in cui viene inquadrato l’argomento nelle pagine Enciclopedia delle Religioni, curata da Alfonso M. Di Nola, alla voce “trasmigrazione”:
“Con il termine trasmigrazione si indica la credenza mitica del passaggio di un residuo personale dell’individuo morto (anima, soffio, doppio, sangue, ecc.) in altro corpo vivente, umano, animale o vegetale, con la conseguenza che l’essenza vitale non conclude il suo esistere terreno con l’evento di morte individuale. L’idea mitica può, in alcuni casi chiaramente documentati, comportare una presa di coscienza della vita come ininterrotta continuità”.
Significati in tutto o in parte analoghi sono espressi, ricorda Di Nola, con i termini:
a) metempsicosi (trasferimento dell’essenza vitale come anima o psyché). Per quanto usato comunemente in riferimento all’antica filosofia ellenica, il termine è stato adoperato per la prima volta in epoca cristiana.
b) metensomatosi (processo di trasferimento dell’essenza vitale in altro corpo). Il termine è stato coniato da Olimpiodoro (Ad Phaedon. 81, 2) per sottolineare come non siano i corpi a cambiare l’anima, bensì l’anima a cambiare i corpi.
c) reincarnazione (trasferimento dell’essenza vitale in altre carni dopo la morte). E’ termine nato a fine ‘800, nell’ambito delle teorie dovute alla Società Teosofica fondata da Helena P. Blavatsky. Nell’accezione propria dei Teosofi, la parola indica unicamete il passaggio da un corpo umano all’altro in un processo di progressivo affinamento spirituale. Oggi viene usata in un senso più generale, anche improprio rispetto all’etimologia.
Ben prima che nascessero tali definizioni, l’idea della trasmigrazione era attestata all’interno di molte mitologie religiose primitive, soprattutto in Oceania ed Africa.
La trasmigrazione nelle culture primitive
L’idea che l’essenza vitale possa trasferirsi, dopo la morte dell’individuo, in altri corpi, sembra essere patrimonio comune delle culture “primitive”. Ciò – secondo taluni autori – come conseguenza diretta dell’animismo di tali culture, nonché come risultato dei fenomeni del sogno e dell’allucinazione, percepiti come possibilità per l’anima di staccarsi dal corpo (da cui deriverebbe la possibilità, dopo la morte, di sopravvivere e continuare ad incarnarsi).
La forma più semplice e diffusa di trasmigrazione è, tra i primitivi, quella legata al culto degli antenati, per cui le anime degli antenati ritornano nei corpi della discendenza, fornendo così una spiegazione religiosa alle rassomiglianze fisiche che si colgono nella linea di discendenza familiare e che sono dovute in realtà alla genetica.
La credenza nella trasmigrazione è rintracciabile in molti casi etnologicamente e storicamente precisabili. Così tra gli indigeni dell’Oceania è diffusa la credenza negli spiriti-bambini, i quali vivono in centri totemici in attesa di reincarnarsi. Tutti gli spiriti-bambini promanano da un solo antenato, e gli uomini, dopo la morte, tornano nella condizione di spiriti-bambini per poi decidere, ad un certo momento, di rinnovarsi assumendo una nuova forma umana.
Tratto unificante dall’idea di trasmigrazione nelle culture primitive è che essa vi appare comunque sganciata, tranne marginali eccezioni, da concetti di sanzioni morali. Il reincanarsi in questa o quella forma, più o meno rapidamente dopo la morte, dipende da numerosi fattori, ma non è una conseguenza di un premio/punizione per la vita condotta in precedenza.
La trasmigrazione nell’Induismo
La nozione di trasmigrazione appare sconosciuta all’Induismo più antico. Nei Rg-Veda (la parte più antica dei Veda), il destino ultraterreno è rappresentato in modo molto elementare: dopo la morte, le varie parti del corpo vanno a raggiungere ciascuna la propria sede (l’occhio va al sole, il respiro al vento, ecc.). Dissolto così il corpo, la parte dell’individuo cosiddetta “non nata” viene sollevata dal dio Agni al mondo dei giusti.
Per raggiungere la sua sede finale, essa percorre una terra oscura, liberandosi via via da tutte le imperfezioni mortali. Alla fine accede al regno della luce eterna su di un carro alato e lì si unisce ai suoi antenati per partecipare ad una festa senza fine.
Più tardi nella letteratura sacra appare il riferimento nell’iter ultraterreno a due vie, tra le quali il morente, all’approssimarsi del trapasso, deve scegliere di inoltrarsi: la via senza ritorno, che conduce alla Terra dei Padri attraverso lo splendore del sole (via solare) e la via che ritorna alla terra, attraverso il chiarore lunare (via lunare). Quest’ultima possibilità, con il ritorno alla terra, sembra sottintendere una nuova nascita.
Quando e come sia subentrata la vera nozione di trasmigrazione non è chiaro. Essa appare comunque nelle Upanisad (raccolta databile X-IV sec. a. C.), con significati che S. Radhakrishnan (La filosofia indiana dal Veda al buddhismo, Torino 1974) descrive così:
“L’idea che emerge su tutte nelle Upanisad è quella di rinascita. La più antica forma di tale idea si ritrova già nel Satapatha-Brahmana, dove la nozione del rinascere dopo la mote e del morire parecchie volte, è strettamente congiunta con quella della ricompensa. Vi si dice infatti che coloro i quali possiedono la retta conoscenza, e compiono i loro doveri, dopo la morte rinascono per l’immortalità, mentre coloro che non possiedono tale conoscenza e trascurano i loro doveri, rinascono sempre di nuovo, e divengono preda della morte. Ma mentre il Brahmana suppone soltanto nascite e morti che si verificano nell’altro mondo, nelle Upanisad questa credenza si trasforma nella dottrina della rinascita in questo mondo. Non si può dire che queste due dottrine siano state in qualche modo conciliate: talvolta però le troviamo insieme. Le azioni buone e quelle cattive sono soggette ad una duplice ricompensa, prima nell’altro mondo, e poi mediante una nuova vita sulla terra: l’anima, quando, dopo la cremazione del cadavere, ha compiuto il suo viaggio verso il cielo in forma radiosa, di là fa immediato ritorno, attraverso le tre regioni, a una nuova esistenza..”.
Nell’Induismo delle Upanisad il più alto genere di immortalità consiste nella liberazione, o identificazione con il Brahman (Assoluto), che si consegue mediante tecniche di ascesi (yoga). Chi non ottiene la liberazione in questa vita, è destinato a continue rinascite in un processo di progressivo sviluppo spirituale, in cui ogni vita dipende dalla precedente:
“Il genere della nascita dipende dalla natura dell’opera compiuta: è chiamata cielo quando l’individuo si eleva ad una vita più alta, è inferno quando si precipita in una vita più bassa”. Liberarsi dall’esistenza nel Samsara (circolo delle esistenze, con nascita, morte e nuova nascita) è possibile con progressivo processo di perfezionamento spirituale: “Il progresso consiste in uno sviluppo incessante, in un’approssimazione perpetua. Quando l’elemento finito sarà stato completamente abbandonato, allora si realizzerà l’unione con Dio, e non vi sarà più ritorno al Samsara”.
S. Radakrishnan conclude che la dottrina induista della trasmigrazione si è formata dall’incontro di più culture, quando i conquistatori indoeuropei giunsero in India: gli autori indoeuropei dei Veda parlavano delle due vie degli dei e dei padri; gli abitanti originari dell’India fornirono l’idea della migrazione delle anime umane negli alberi e negli animali (per loro anche animali e piante avevano un’anima); i Brahmana insistono sulla necessità di una ricompensa. La dottrina del Samsara delle Upanisad assembla tali elementi con un processo sincretistico.
C’è da specificare che la trasmigrazione della quale si parla nelle prime Upanisad è unicamente quella in altri corpi umani. Tuttavia, in alcune Upanisad posteriori si accenna anche alla migrazione dell’anima in corpi animali. Tale idea si pensa possa essere derivata dalle credenze delle tribù aborigene.
La dottrina della trasmigrazione assume una forma più compiuta e complessa nel cosiddetto Codice di Manu (Il sec. d.C., ma rielaborante fonti del II sec. a.C. o anche più antiche), dove il ritorno post mortem ad altre esistenze è legato ancora più strettamente alle leggi morali e si apre nettamente alla possibilità del passaggio da una forma di esistenza umana ad una forma di esistenza animale.
La reincarnazione è condizionata dall’atto compiuto nell’esistenza precedente, la quale a sua volta dipende dai comportamenti delle esistenze ancora precedenti. Coloro che hanno commesso delle mancanze gravi, dopo aver subito, per un lungo tempo, i tormenti infernali, accedono a tali forme di ri-esistenza. La dottrina della trasmigrazione diventa così fattore di controllo sociale, dettando le giuste norme di comportamento nella vita attuale e indicando azioni tabù dalla spaventose conseguenze:
“L’uccisore di un brahmano (sacerdote) entra (post mortem) nella matrice dei cani, dei porci, degli asini…Il brahmano che beve alcool entra nella matrice dei vermi, dei bruchi o insetti…Il brahmano che ruba entra, per un migliaio di anni, nella matrice dei ragni, dei serpenti e delle lucertole… Gli uomini che commettono atti malvagi, soffrono costantemente nascite disgraziate, in cattive matrici…; senza sosta ridivenire feti, rinascere dolorosamente, per dure catene, schiavi di altri…in corrispondenza dello stato di spirito in cui si compie un’azione, se ne raccoglie il frutto in un corpo di corrispondente qualità”.
Il Codice di Manu, dunque, calca l’accento sulla possibilità che il processo di reincarnazione vada a ritroso, da forme di vita più evolute a quelle meno evolute, e fa trasparire evidente la. sofferenza che ne deriva.
La trasmigrazione nel Buddhismo
Il samsara, il flusso delle esistenze, è al centro anche del Buddhismo. Nella predicazione del Buddha, però, la trasmigrazione è concepita più come una pena che la creatura autogenera per sé medesima, per il fatto stesso che vive ed è immersa nel mondo degli attaccamenti e dei desideri. Per gli animali, per gli uomini e persino per gli dei, la causa prima del rinascere è la sete di vita. Per uscire dal samsara è necessario annullare questa sete di vita, bruciare i legami che condizionano l’essere vivente.
La liberazione dai legami di vita, secondo un motivo già presente nelle Upanisad, si sviluppa esclusivamente come conoscenza: il prendere coscienza della natura dell’essere e della sua origine comporta il riscatto dalla condizione di essere e dal ciclo delle reincarnazioni.
Ciò è in apparente contraddizione con la dottrina del Buddhismo più antico, secondo il quale non esiste un’anima individuale ed è perciò un non-problema indagare sui problemi dell’anima. In realtà il Buddhismo hinayanico “considera l’individuo come un aggregato di condizioni illusorie, impermanenti, provvisorie, volontariamente provocate dalla sete di vita (dharma). E la trasmigrazione riguarda proprio tale aggregato, che si ricompone e si reincarna, dopo la morte, in nuove forme, inferiori o superiori, fino a quando non riesca ad annullarsi attraverso la coscienza liberatrice della propria natura impermanente”.
Questo concetto originario, subisce poi delle modifiche nel corso della storia del Buddhismo, con il riaffiorare di credenze proprie dell’Induismo. Nell’oceano delle rinascite, appaiono innumerevoli flussi di esistenze, condizionati dalle opere compiute nelle vite precedenti e condizionanti le loro future reincarnazioni. Inoltre, le esistenze sono classificabili in cinque diversi modi di vita: vita celeste, umana, animale, spettrale, infernale (talvolta si aggiunge un sesto modo di vita, quello degli spiriti malvagi).
Altre volte i modi di esistenza sono raggruppati in tre regni: l) mondo del desiderio, che si alimenta alla sete di esistenza e determina l’immersione nel samsara, che comprende uomini, animali, larve e dei degli ultimi cori; 2) mondo delle forme, cui appartengono gli asceti che hanno attraversato i primi quattro stadi della via salvifica buddhistica e gli dei fino a Brahma; 3) mondo non formale, cui appartengono gli dei superiori a Brahma e gli asceti che sono nei quattro stadi superiori della salvezza.
Nella dottrina del “Nesso della Catena Causale”, il pensiero buddhista sulla trasmigrazione trova la sua esposizione più complessa e dettagliata. La vita presente è determinata dalle “predisposizioni” accumulate nelle vite anteriori, che originano vijnana (approssimativamente traducibile con “coscienza”). Concepito come un essere sottile che vive nel periodo intermedio fra la morte e la nuova nascita, il vijnana è spinto dalle azioni compiute nelle vite prevedenti, che lo costringono ad una nuova esistenza. Esso,cioè, è costretto a sentire desiderio per una madre e per un padre, discende pertanto in una matrice e dà origine all’embrione.
Il Buddhismo sviluppa anche un concetto, già presente nell’Induismo, secondo il quale l’asceta, applicando tecniche di meditazione, acquisisce la facoltà sovranormale di rappresentarsi visivamente tutte le sue precedenti esistenze. E’ questa una conseguenza del prendere coscienza di tutto il suo essere nella totalità del tempo e quindi nella successione temporale delle incarnazioni cui è stato soggetto.
La trasmigrazione in Egitto
Erodoto attribuisce la paternità della dottrina della trasmigrazione agli Egiziani: “Gli Egiziani sono anche i primi ad aver enunciato questa dottrina: che l’anima dell’uomo è immortale; che, quando il corpo perisce, essa entra in un altro animale, il quale, a sua volta, nasce; che, dopo essere passata attraverso tutti gli esseri della terra, del mare e dell’aria, entra nel corpo di un altro uomo che nasce; che questo ciclo si compie in tremila anni. Vi sono dei Greci, alcuni prima, altri dopo, i quali hanno professato codesta dottrina come se fosse loro propria. Io conosco i loro nomi ma non li scrivo”.
L’affermazione di Erodoto è da ritenersi infondata. Si può anche supporre che in Egitto, soprattutto nelle epoche più antiche, siano circolate credenze legate alla trasmigrazione, considerata la grande diffusione che esse hanno tuttora in tutte le culture africane primitive. Tuttavia, nella religione egiziana,quale ci è pervenuta, mancano concreti riferimenti ad una vera e propria dottrina della trasmigrazione.
Equivoci su questo punto sono stati generati, anche in epoche recenti, da una cattiva interpretazione del Libro dei morti egizio, raccolta di formule, preghiere, inni magico-cerimoniali a carattere funerario risalente al Medio Impero nelle sue formulazioni più antiche. I rituali del Libro dei morti tendono a garantire al defunto protezione nel viaggio post mortem, offrendogli i mezzi per superare le prove che lo attendono prima di raggiungere il mondo divino ed eterno di Osiride.
Per permettere al defunto un più rapido cammino, gli vengono suggerite formule che gli assicurano la trasformazione momentanea in vari animali, ad esempio il “falco d’oro” o il serpente, o in forme vegetali (fiore di loto).
Differentemente dalla trasmigrazione, si tratta di metamorfosi provvisorie e volontarie, per di più sganciate da un concetto di sanzione morale. Per di più, la fonte di tali metamorfosi è unicamente la magia.
Taluni hanno anche creduto di ravvisare una prova della credenza nella trasmigrazione tra gli Egizi nelle mummie di animali presenti nelle tombe. Tali mummie, però, si giustificano o con il fatto che tali animali dovevano restare al servizio del loro padrone anche nell’oltretomba o con culti particolari resi all’animale. Ed anzi, proprio la grande cura messa nell’allestire le tombe, dotandole di ogni mezzo necessario per assicurare la sopravvivenza del Ka (doppio), mostra un’idea dell’aldilà in antitesi con quella di trasmigrazione.
La trasmigrazione tra i popoli celtici
Le fonti sulla presenza tra i Celti della dottrina della trasmigrazione sono contraddittorie. E’ certo che i Celti credessero in un’anima immortale, ma sul suo destino ultraterreno si trovano accenni a due diverse possibilità: il viaggio per raggiungere una regione o mondo in cui dimorare per l’eternità; la “necessità” di incarnarsi nuovamente.
La testimonianza più nota sulla trasmigrazione tra i Celti ci è pervenuta da Cesare, il quale scrive (De bello gallico, VI, 14-19) che i Druidi insegnavano che l’anima fosse immortale, ma soggetta a passare, dopo la morte, di corpo in corpo. Altri autori latini (Diodoro Siculo, Valerio Massimo) confermano quanto riferito da Cesare e connettono la dottrina celtica sulla trasmigrazione ad una origine pitagorica, che in realtà sembra piuttosto improbabile.
In opposizione a tali testimonianze, ve ne sono altre che riferiscono della credenza in una definitiva destinazione ultraterrena dell’anima. Come spiegare una simile duplicità? Tra le ipotesi fatte per superarla, c’è anche quella secondo la quale le anime dei mortali comuni sono destinate alla sede beata, mentre la metempsicosi è concessa soltanto eccezionalmente a personaggi predestinati o mitici.
La trasmigrazione tra i greci
Erodoto, dopo aver attribuito agli Egiziani l’origine della dottrina della metempsicosi poi diffusasi tra i Greci, distingue in Grecia tra gli antichi ed i nuovi partigiani della metempsicosi. Se identifichiamo nei Pitagorici i nuovi seguaci della dottrina della metempsicosi, gli antichi seguaci cui fa riferimento Erodoto sono probabilmente i seguaci dell’orfismo.
L’orfismo prende il nome dal mitico fondatore Orfeo. Ciò che sappiamo dell’orfismo deriva da pochi frammenti letterari e da un notevole patrimonio di laminette orfiche. Queste venivano appese al collo del defunto seguace dell’orfismo per assicurargli un felice esito del viaggio ultramondano, grazie a formule rituali che vi erano incise.
Esse attestano la credenza nella trasmigrazione tra gli Orfici: l’anima passa attraverso una serie di successive incarnazioni, che è il cerchio delle generazioni o la ruota delle esistenze o del destino, tornando alla sua fonte originaria solo quando, attraverso le successive purificazioni, ha rotto la ruota necessitante ( “ciclo doloroso e molesto” è chiamato nella laminetta orfica di Thurii, con un’evidente similitudine con la ruota delle esistenze di matrice buddhista).
Gli echi di questa credenza si trovano riportati in autori diversi. Così in Proclo: “Perciò mutata l’anima, durante i cicli del tempo,/ dagli uomini agli animali trapassa in varia vicenda:/ e a volte un cavallo nasce allora,/ a volte una pecora, talora un uccello pauroso a vedersi;/ a volte, invece, un corpo di cane con voce grave,/ e dei freddi serpenti la razza striscia al suolo divina”.
Secondo la tradizione greca, tuttavia, non sono stati gli orfici a parlare per primi di trasmigrazione, bensì Ferecide di Siro, vissuto intorno al 600 a.C., che si vuole maestro di Pitagora anche per ciò che concerne la metempsicosi: “E’ voce che da lui fosse educato Pitagora…E primo avrebbe tenuto il discorso sulla metempsicosi”.
E così Porfirio: “Parlando Ferecide di Siro dei recessi e delle fosse e degli antri e delle uscite e delle porte e significando enigmaticamente in tali modi le nascite e le estinzioni delle anime”.
E’ con Pitagora, però, che le idee sulla trasmigrazione già presenti nell’Orfismo assumono una consistenza definitiva di credo religioso ed una più precisa sistemazione. L’anima è imprigionata nel corpo e la vita terrena deve tendere ad una liberazione che si attua mediante l’espiazione delle colpe delle esistenze precedenti e mediante la pratica delle purificazioni, della vita eticamente controllata e dell’astinenza dalla carne.
Nelle numerose leggende fiorite intorno alla biografia di Pitagora, egli ha il dono di ricordare le sue precedenti esistenze e dichiara di essere stato Etalide, figlio di Ermete, araldo degli Argonauti, in una sua prima esistenza, per poi essersi reincarnato in Euforbo, figlio di Ponto, e in Ermotimo e Pirro.
In alcuni versi di Senofane, Pitagora, vedendo che un tale batte un cane, lo invita ad astenersene, perché nel cane egli ha ravvisato l’anima di un suo amico, di cui ha riconosciuto la voce. L’anima, dunque, può passare sia in una bestia che in un altro essere umano, e vi è, in conseguenza, universale parentela tra tutte le cose.
Mentre nell’Orfismo è una colpa d’origine, una “caduta”, a determinare l’attuale condizione “mista” (anima-corpo) dell’uomo, non abbiamo nozione di analoghi schemi concettuali per il più antico Pitagorismo. Sappiamo solo che, nelle vite successive del “ciclo”, animali ed umane, possono accumularsi nuove colpe e possono realizzarsi condizioni catartiche o purificanti che determinano la definitiva liberazione dal carcere corporeo.
Il concetto di liberazione dal carcere fisico e dal ciclo delle esistenze, tuttavia, non è attestato nei frammenti pitagorici più antichi. L’ “uscita” dell’anima dal corpo come meta finale del processo catartico (sensibili le analogie con la “liberazione” proposta dallo yoga indiano) è presente invece in testi più tardi (I versi aurei; Diogene Laerzio ecc.), facendo supporre che la dottrina della metempsicosi, dopo la formulazione di Pitagora, sia stata ulteriormente sviluppata dalla sua scuola. Così, ad esempio, a Filolao si deve attribuire la dottrina della separazione dell’anima dal corpo e del suo passaggio nell’universo, al di sopra del cielo. Pur con qualche contraddizione, la tradizione pitagorica sulla reincarnazione è costante, come attestano, appunto, le biografie di Pitagora scritte dai suoi seguaci in epoche successive e nelle quali sempre si attribuiscono al maestro più vite precedenti.
La metempsicosi appare anche al centro della dottrina di Empedocle di Agrigento. Nelle Purificazioni si afferma che le anime , durante un periodo di trentamila anni di purificazione, devono vestirsi dei corpi più diversi per percorrere, l’uno dopo l’altro, i dolorosi sentieri della vita; egli sa di essere stato, prima dell’attuale esistenza, un giovane, una giovane, un cespuglio, un pesce; le anime passano, per espiare le loro colpe, in corpi di animali o piante; le anime migliori si reincarnano in profeti, in bardi, in medici, in capi, per tornare infine in compagnia degli dei; è vietata l’uccisione di animali e la consumazione delle loro carni, essendo l’animalicidio omologato allo spargimento del sangue dei parenti e all’uccisione del proprio padre. Ciò che scatena la necessità della trasmigrazione come processo di purificazione è una colpa, un peccato che ha fatto espellere l’anima dalla compagnia degli dei.
In Platone si parla della metempsicosi come di un’antica dottrina: “C’è un’antica tradizione, di cui mi sovviene, che le anime siano colà (nell’Ade) per esservi andate di cui, e che di là poi nuovamente ritornino qui e si generino dai morti” (Fedone, 70 C). Anche se nel Fedone Platone muove talune obiezioni al Pitagorismo, la sua visione del destino ultraterreno dell’uomo attinge all’idea della rnetempsicosi in una libera e personale rielaborazione delle dottrine orfiche e pitagoriche.
Nel Fedro (249 AB) le anime dei saggi, posto che abbiano scelto per tre volte consecutive la medesima vita, tornano alle regioni celesti dopo tremila anni di prove; le altre anime sono prima sottoposte a giudizio e quindi, dopo mille anni, chiamate a scegliersi una seconda vita:”Allora un’anima umana può anche passare nel corpo d’una bestia, e chi era stato uomo, da quello di una bestia di nuovo in quello d’un uomo; giacché non è possibile che assuma forma umana chi non ha mai veduto la verità”.
Nel Fedone (80 e 81) si afferma che coloro i quali non si sono affrancati dagli elementi corporei non salgono all’elemento puro, ma restano presso la tomba come fantasmi e passano poi alla prigione di un altro corpo, divenendo animali i cui tratti corrispondono ai loro vizi (i sensuali si reincarnano in asini, i violenti in volpi e gatti, gli ingiusti ed i tiranni in lupi, sparvieri e nibbi), mentre i virtuosi: “..è presumibile che trasmigrino di nuovo in specie analoga d’animali civili e mansueti, quali ad esempio le api, le vespe o le formiche; o di nuovo anche nella stessa specie umana, e che da loro nascano gli uomini a modo”.
E’ appena il caso di aggiungere che questa visione platonica dei meccanismi della metempsicosi subisce delle varianti in altri testi, con contraddizioni anche evidenti. Ciò che interessa, invece, è la constatazione del persistere anche in Platone e nei suoi discepoli di un’idea di fondo ispirata all’arcaica religiosità orfica. Resta insoluto, tuttavia, il problema dell’origine di tali credenze presso i Greci.
Per taluni è innegabile un influsso del pensiero indiano. Così A. Macdonell (Hystory of sanskrit literature) osserva che “la dipendenza di Pitagora dalla filosofia e dalla scienza indiana sembra certo altamente probabile” perché “nel suo caso la dottrina della metempsicosi, che i Greci consideravano di origine straniera, compare senza alcun precedente e senza alcuno sfondo esplicativo; né egli potrebbe averla derivata dall’Egitto, dato che gli antichi Egizi non la conoscevano affatto”.
Altri autori hanno rimarcato che anche per ulteriori aspetti il pitagorismo e il pensiero indiano concordano, per esempio per il regime vegetariano prescritto. Un puro caso o una derivazione diretta? Pitagora fu contemporaneo del Buddha, e in quell’epoca la via dell’India non era così chiusa ed impervia come potremmo credere. A fare mediazione tra mondo ellenico e mondo indiano c’era pur sempre la Persia di Zoroastro, che aveva contatti con entrambi.
Altri autori, invece, negano l’influsso indiano, ritenendo la presenza dell’idea di trasmigrazione nella cultura greca un’eredità dei primi sciamani orfici. O ritengono più probabile l’ipotesi che considera le concezioni greche sulla reincarnazione come residui del patrimonio religioso ancestrale proprio degli indoeuropei, stirpe da cui derivarono le popolazioni greche, indiane e celtiche.
Trasmigrazione e cristianesimo
Sia nell’Ebraismo che nel Cristianesimo l’idea della trasmigrazione si affaccia di sfuggita ed è fortemente negata dalle correnti ortodosse.
Nel Talmud la trasmigrazione non ha posto, ma è pur vero che in certa letteratura religiosa ebraica minore, dei tempi della Diaspora, si ritrova il termine Gilgul che significa trasmigrazione, Metempsicosi (G. Scholem, La Cabala).
È possibile che l’Ebraismo, così come il Cristianesimo, abbiano pagato un debito di contaminazione dallo Gnosticismo dei primi secoli dopo Cristo, poiché il tema della caduta dell’anima nella materia è centrale nei temi gnostici che poi assegnano all’anima il compito di liberarsi in vita, così da ritornare per sempre presso il Padre evitando la pena di reincarnarsi.
Anche più chiara è la posizione teologica del Cristianesimo,per il quale ogni anima è appositamente creata al momento del concepimento, e solamente per quel corpo. Non essendoci pre-esistenza dell’anima, ed essendoci invece la sua unicità per un corpo, la trasmigrazione diventa impossibile. Se qualche tentazione di accettarla vi fu, fu definitivamente cancellata dal Concilio di Lione (1274).
Molto più tardi, nel XIX secolo, la maturazione della moda occultista riportò il tema alla ribalta. Non solo si affermò il movimento spiritista che, postulando la possibilità di chiamare a “colloquio” gli spiriti dall’aldilà si ponevano in contrasto con il dettato del Concilio di Lione.
Uno dei “grandi” dell’Occultismo, Gerard Encausse, detto Papus, pensò di aver trovato nel Vangeli la prova inoppugnabile della credenza nella reincarnazione.
Nel Vangelo di Giovanni (IX, 1-41) leggiamo: “[In quel tempo] Gesù passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Papus si chiese: “Essendo il poveretto nato cieco, come poteva aver peccato prima della nascita, se non in una vita precedente?”. Ed ecco la “prova” della trasmigrazione nel cristianesimo delle origini.
Ma non è così.
Tra le credenze dell’epoca c’era quella per cui il feto partecipava dei peccati dei suoi genitori durante la gestazione.
Qualche decina di anni fa, infine, si affermò l’idea che l’ipnosi potesse fare ricordare a un individuo le sue vite passate.
Ma prove inoppugnabili non sono state trovate. Il dibattito tra chi crede alle anime che passano di esistenza in esistenza e chi crede che ogni anima sia legata a un determinato corpo continua (d’altro canto come sarebbe possibile la resurrezione dei corpi alla fine dei tempi se ogni anima dovesse fare i conti con innumerevoli corpi?). Ed è plausibile che continui ancora, perché chi pensa che sia possibile prima o poi trovare prove scientifiche dell’una o l’altra tesi, è in profondo errore.
Non è questione di scienza ma di fede.
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