L’Armenia tra passato e futuro
di Maria Immacolata Macioti
Immagini di Lucia Cuocci, copyright riservati
Sono appena rientrata da un viaggio in Armenia in cui ho avuto modo di visitare, grazie all’organizzazione della giornalista Lucia Cuocci, siti di grande antichità, di riscoprire chiese rupestri e vecchi cimiteri ricchi di croci tipiche, dette khatchkar. Croci intagliate nella pietra, che più che ricordare la passione di Cristo richiamano la vita. Su di esse infatti non è in genere raffigurato il figlio di Dio in agonia, come avviene in genere in Occidente.
Le braccia finiscono invece a forma di fiore, di bocciolo. Preludono al risveglio, alla vita. Ricordano semmai che Cristo è risorto. La croce armena è decisamente assimilabile all’albero della vita.
Ho potuto altresì, in questo viaggio, ascoltare alcuni colleghi dell’Università di Yerevan, parlare con diversi sacerdoti, con altri esponenti della società armena.
Ma cosa si intende oggi, parlando di Armenia? Si tratta di una piccola nazione della Trancaucasia, situata tra il Mar Nero e il Caspio. A lungo, crocevia tra Asia, Medio Oriente ed Europa.
Un paese dalle antichissime origini, le cui popolazioni sembrano essere derivate dal mitico monte Ararat, che domina con la sua mole innevata la odierna capitale, Yerevan.
Oggi, il monte su cui sarebbe atterrata l’arca di Noè, quello che è sempre presente nei simboli, nei sogni degli armeni, è in Turchia. Una Turchia dove per anni gli armeni sono vissuti, subendo a tratti stragi in alcuni dei loro paesi, tra l’800 e i primi anni del ‘900 (paesi operosi, abbienti rispetto a una Turchia impoverita). Eppure, sentendosi profondamente turchi: fino al genocidio, il primo occorso nel contesto europeo, nel Novecento, verificatosi durante la Prima guerra mondiale, nella disattenzione delle potenze europee.
Un genocidio in cui morirono circa 1milione e mezzo di armeni, uomini e donne. Bambini. Foriero di molte fughe e di una grande diaspora. Oggi infatti gli armeni sono sparsi un po’ in tutto il mondo, anche se le loro più forti comunità sono in Russia, negli USA, in Francia. In Turchia gli armeni sono oggi poco numerosi, in buona parte sono stati costretti a conversioni forzate, a vivere mimetizzandosi. Le loro città un tempo fiorenti, i villaggi ricchi di chiese e scuole sono ormai perduti.
Resta, libera e indipendente, la Repubblica di Armenia, cioè la parte orientale di quella che era stata una ben più vasta Armenia. Una Repubblica relativamente recente, poiché si è proclamata tale al crollo dell’Urss. L’Armenia vive oggi, essenzialmente, di agricoltura e commercio. La vite e l’albicocco sono tra i suoi più pregiati prodotti.
Celebre il cognac armeno, molto amato da Wilson Churchill. Di cui si ricorda che, richiesto della sua “ricetta” per vivere bene, avrebbe risposto: “Niente ginnastica, fumare ogni tanto un buon sigaro e bere cognac armeno tutti i giorni.”. Pare che ogni anno gli venissero spedite un numero di bottiglie pari al numero dei giorni dell’anno.
Si narra che un giorno Churchill abbia aperto una bottiglia e sia rimasto profondamente deluso: il sapore non era quello cui era abituato. Si mette in contatto con la ditta Ararat, che produceva e produce il cognac, protestando a gran voce.
Cosa è accaduto, si informa, come mai il cognac non è all’altezza delle sue aspettative, dello standard abituale?
La risposta è che il responsabile è stato prelevato e spedito in Siberia. La produzione ne ha inevitabilmente risentito. Wilson Churchill si sarebbe allora messo prontamente in contatto con il Cremlino, reclamando il ripristino della situazione precedente, la liberazione cioè del responsabile della ditta Ararat. E le autorità sovietiche lo avrebbero accontentato: l’uomo verrà cercato, individuato, rispedito a Yerevan.
Il cognac sarebbe così tornato agli attuali standard, Churchill sarebbe stato soddisfatto e, si può immaginare, lo sarà stato soprattutto l’armeno che, grazie a lui, era sfuggito al confino in Siberia. Caso probabilmente unico rispetto ai molti che vi sono rimasti per anni, in molti casi fino alla morte o alla fine dell’Urss.
Perché la parte orientale dell’Armenia, l’attuale Repubblica di Armenia, è stata per circa 70 anni nell’Urss: alla fine della prima guerra mondiale, prostrata dal genocidio, ormai impoverita e desolata, l’Armenia aveva preferito compiere questo passo, di fronte all’avanzata dell’Armata Rossa.
La Seconda guerra mondiale vede quindi gli armeni combattere dalla parte dei buoni, contro la Germania di Hitler.
L’armata armena sarà tra le prime truppe a entrare a Berlino, pagherà con un alto numero di morti la propria partecipazione alla guerra.
Oggi, dicevo, un piccolo stato, una terra ricca di corsi d’acqua e montagne. Che cerca di risalire la china della crisi, anche se le difficoltà sono evidenti. In primo luogo, nella lista delle spese, delle uscite, si hanno le spese militari: non perché l’Armenia sia uno stato guerrafondaio e aggressivo, ma perché prepara, necessariamente, la propria difesa in caso di attacchi che potrebbero facilmente giungere dall’Azerbaigian. Con l’Azerbaigian infatti ha combattuto una durissima guerra di quattro anni, dal 1992 al 1996, per il Nagorno Karabakh, terra lungamente contesa tra Azerbaigiuan e Armenia, data all’Azerbaigian, il 5 luglio 1921 dall’ufficio politico caucasico del partito bolscevic, sembra su pressione di Stalin, all’epoca commissario per il Caucaso. All’Azerbaigian andrà altresì il Nakhchivan L’Azerbaigian ha sempre sostenuto trattarsi di terra propria.
L’Armenia ha sempre combattuto per riprenderle. Di fronte alla proclamazione dell’indipendenza da parte del Nagorno Karabakh, l’Azerbaigian entra in guerra contro l’Armenia, che ne sostiene li indipendenza. La guerra è vinta dall’Armenia, che pure ha subito molte perdite e ha passato l’ultimo inverno di guerra senza luce né riscaldamento (e l’inverno in quei luoghi si fa sentire, la temperatura scende facilmente sui -15) perché le sono stati tagliati i rifornimenti. Si giunge a una tregua: la pace non verrà mai firmata.
Io stessa sono stata ammonita dall’ambasciatore dell’Azerbaigian in Italia a non andare nel Nagorno Karabakh: terra dell’Azerbaigian, a suo dire, occupata abusivamente e temporaneamente dall’Armenia. Andandoci, metterei a rischio i buoni rapporti tra l’Università di Baku, la capitale dell’Azerbaigian, e La Sapienza, l’università di Roma. Rischioso, inoltre, l’accesso, poiché, mi dice, c’è la guerra, si spara. Accadesse un incidente, lui cosa potrebbe poi dire al presidente Letta?
Oggi nel Nagorno Karabakh si accede solo dall’Armenia, attraverso un breve corridoio: il corridoio di Lakin. La situazione è avvertita come minacciosa, l’Armenia si prepara a dovere ancora combattere, se il Nagorno Karabakh dovesse essere nuovamente assalito.
Una regione bellissima, quella del Nagorno Karabakh, di alta montagna, spopolata a causa dell’alto numero dei morti in guerra e dei profughi, che conta soltanto sui 120.000 abitanti. Che ha molte difficoltà economiche perché il commercio è possibile solo attraverso l’Armenia. E questa a sua volta ha difficoltà perché sono chiuse le frontiere terrestri con la Turchia (dai tempi della guerra per il Nagorno Karabakh la Turchia ha preso questa decisione, unilateralmente), oltre a quelle con l’Azerbaigian. E si tratta, da ambo i lati, di frontiere armate. La Russia sostiene l’Armenia, ma invia anche, sembra, aiuti all’Azerbaigian, così come fanno gli Usa.
La Repubblica di Armenia ha cercato di aprire trattative, relazioni più amichevoli con la Turchia, cosa che non è piaciuta affatto, in genere, agli armeni della diaspora: ma il processo si è ben presto arrestato, anche perché gli armeni sognano ancora di riavere le loro antiche terre, così come previsto dal Trattato di Sevrès, mai divenuto operativo perché nel frattempo Kemal Atatürk era avanzato con le sue truppe, riunificando quei territori sotto il suo dominio. E anche perché la Turchia, ancora oggi, non è disponibile a riconoscere il genocidio armeno.
Che pure ormai è noto e piuttosto riconosciuto in Occidente, dopo anni e anni di silenzio. Un silenzio, da parte dei governi, che ha portato anche a un decennio di terrorismo armeno (1975-’85). Un terrorismo indirizzato alla Turchia, che ha avuto come effetto quello di attirare l’attenzione dei governi, che ha condotto, appunto, a vari riconoscimenti di questo spaventoso genocidio. E, man mano che si allargava l’area dei governi, degli stati che riconoscevano esservi stato un genocidio degli armeni, perpetrato dai turchi, all’estinzione del terrorismo stesso.
Resta quindi una situazione difficile, estremamente tesa, che potrebbe certamente mutarsi a breve in un’altra guerra sanguinosa. Le potenze europee sembrano impossibilitate a trovare una soluzione pacifica. Il cosiddetto “Gruppo di Mnsk”, incaricato delle trattative, non è riuscito in vari anni a pervenire a un accordo.
Negli ultimi tempi il ricco Azerbaigian ha profuso una fortuna (ma ha il petrolio nel sottosuolo) per dare di sé una buona immagine.
Ha scoperto il potere della comunicazione, finanziato mostre, sostenuto la pubblicazione di libri, fatto mettere sui mezzi di trasporto anche in Italia una pubblicità in merito.
Ha ricordato la presenza azera (turca) nel Risorgimento italiano. L’Armenia non può fare nulla del genere. Ha però cercato di risolvere la situazione dei propri profughi, quelli fuorusciti dall’Azerbaigian e dal Nakhchivan, dove oggi non ci sono più armeni, così come non ci sono più azeri nel Nagorno Karabakh e in Armenia (con una unica eccezione di un azero sposato con un’armena): dalle guerre di ieri sono emersi stati etnici.
Non così l’Azerbaigian, che ancora oggi ha un alto numero di profughi e rifugiati (si parla di un milione di persone), di cui alcuni hanno fatto la loro comparsa anche recentemente, in un convegno estivo dello IAI (Istituto Affari Internazionali) a Roma.
Gli armeni commentano: se l’Azerbaigian spendesse meno in propaganda e più nella sistemazione dei propri profughi, le cose non andrebbero meglio?
Ormai la situazione appare davvero difficile e precaria. E siamo alla vigilia del centenario del genocidio armeno, che si celebrerà nel 2015.
C’è da chiedersi se ci si giungerà in una situazione di pace e di ripresa economica per queste popolazioni, o se ancora saranno costrette dalle circostanze a difendere con le armi la propria indipendenza: una ipotesi che gli stati occidentali dovrebbero fare di tutto per scongiurare, una situazione complessa che richiederebbe sforzi internazionali per una pacifica risoluzione. Ma non sembra che si stia procedendo in questa direzione.