Porfirio, il filosofo vegetariano e animalista

di Germano Morosillo

Introduzione

Ogni anno gli uomini uccidono, per scopi alimentari, un numero smisurato di animali. Limitandoci a quattro categorie di creature terrestri (polli, maiali, mucche, pecore), come suddivise da Faunalytics su dati FAO, ed escludendo quelle acquatiche, il totale supera i 70 miliardi.

Il modello carnivoro, fondato sull’allevamento intensivo, continua ad essere ampiamente dominante, nonostante presenti numerose e sempre più profonde criticità da un punto di vista ambientale e, a medio e lungo termine, economico. Tuttavia la questione di fondo, che precede ogni discussione sulla sostenibilità di tale modello, è di ordine morale: è giusto mangiare carne (e pesce)? È eticamente accettabile allevare gli animali tra inaudite sofferenze, in spazi angusti e sovraffollati, con mutilazioni inferte senza anestesia, in condizioni infime di salute psicologica e fisica (quest’ultima tenuta sotto controllo con ampio uso di antibiotici), per poi ucciderli dopo poche settimane o mesi di vita?

Sebbene la nostra alimentazione offra numerose e salutari alternative, il dilemma viene eluso o ignorandolo o argomentando che, dal momento che gli animali non sono uomini, è lecito disporne come meglio si crede. È quest’ultima, per limitarci all’Italia, la posizione assunta da buona parte della classe dirigente, tra dichiarazioni che esaltano gli allevamenti intensivi e la caccia e sanzioni mai troppo severe nei confronti di chi tortura gli animali per poi mettere in rete i video e guadagnarsi reazioni e commenti. Sarebbe forse il caso di dire basta.

Lo avevano già fatto alcuni celebri filosofi e scrittori antichi, e moltissimi altri rimasti nell’ombra, che dedicarono scritti e riflessioni al rispetto degli animali o lo mostrarono direttamente con l’esempio di vita.

L’elenco dei pensatori vegetariani, principalmente afferenti alla linea di pensiero orfico-pitagorico-platonica, è assai nutrito. Comprende, tra gli altri, Pitagora, Empedocle, Teofrasto, Dicearco, Epicuro, Apollonio di Tiana, Ovidio, Plutarco, Plotino e Porfirio.

Biografia

porfirioPorfirio nacque a Tiro, in Fenicia, nel 233, e, dopo essersi formatosi alla scuola ateniese di Cassio Longino, si trasferì a trent’anni a Roma. Lì divenne il principale discepolo di Plotino, nonché, molti decenni più tardi, l’editore dei suoi scritti, che riordinò e pubblicò in sei libri contenenti ciascuno nove trattati: le Enneadi, cui fece precedere la Vita di Plotino.

Dotato di un ingegno filosofico di prim’ordine, ma anche di indole melanconica (le due caratteristiche sono spesso congiunte), fu soggetto a crisi depressive che lo portarono a meditare il suicidio, dal quale lo dissuase Plotino, spingendolo a trasferirsi in Sicilia dove recuperò l’equilibrio spirituale anche attraverso l’incessante attività di scrittura, che alla sua morte, avvenuta a Roma presumibilmente nel 305, contava circa 70 titoli. Per quanto sia ricordato soprattutto come allievo e biografo di Plotino, il nostro filosofo non fu un semplice compilatore delle idee del maestro, ma sviluppò un pensiero parzialmente originale, in particolare, ma non solo, tentando di conciliare platonismo, che rimane il sistema di riferimento, e aristotelismo. Plotino invece, che pure fece suoi alcuni strumenti concettuali dell’aristotelismo, mantenne una più chiara distinzione fra le due filosofie, assegnando il primato al “divino Platone”, nei cui dialoghi sarebbe possibile rintracciare ogni verità.

La fortuna e l’influenza di Porfirio furono tangibili almeno fino al Rinascimento: non solo per la celebre Isagoge (introduzione) alle Categorie di Aristotele, che per il tramite di Boezio diventò il termine di riferimento del dibattito logico lungo tutto il medioevo, ma anche, ad esempio, per la peculiare struttura triadica attribuita al divino, che presenta, in una certa misura, punti di contatto con la Trinità cristiana. Tuttavia in campo religioso e teologico la polemica del pagano Porfirio fu fiera, affidata in particolare ai 15 libri di Contro i cristiani, opera che sarà oggetto di molti tentativi di confutazione (in particolare da parte del vescovo di Cesarea, Eusebio) e che nel V secolo verrà messa al rogo. Ce ne rimangono solo frammenti e testimonianze, e può essere letta come una continuazione del Discorso vero di Celso, filosofo platonico del II secolo.

Il De abstinentia

Al giorno d’oggi, complice la messa in crisi del paradigma antropocentrico e il progressivo emergere di una coscienza collettiva ambientalista e animalista, l’opera di Porfirio che meglio si presta ad essere utilizzata nel dibattito pubblico è però un’altra: il De abstinentia [ab esu] animalium (Sull’astinenza [dal cibarsi] di animali), manifesto ante-litteram del vegetarianismo. Per quanto meno noto rispetto ai trattati zoopsicologici di Plutarco (in particolare il suggestivo De esu carnium, che ha anche ispirato letterati e musicisti, da Shelley a Battiato), il discorso portato avanti nel De abstinentia porfiriano appare più completo ed esaustivo e arriva a determinare, con 1.700 anni di anticipo, uno degli argomenti principali dello scontro di idee tra i vegetariani, e più in generale i sostenitori dei diritti degli animali, e i loro oppositori. Ma andiamo con ordine.

Il volume ha un intento parenetico: esortare l’amico Castricio, detto Firmo, a ritornare alla dieta vegetariana, da poco abbandonata. Il De abstinentia, articolato in quattro libri, segue lo schema inaugurato da Platone nel Sofista, e successivamente replicato da Aristotele in diversi trattati, che prevede l’esposizione degli endoxa, ovvero le opinioni di alcuni autorevoli filosofi del passato, cui fa seguire, o con le quali integra, le proprie personali considerazioni.

Il distacco dalle passioni

Preliminarmente Porfirio osserva che “la dieta senza carne contribuisce non solo alla buona salute, ma anche alla conveniente resistenza alle fatiche della filosofia” (I, 2, 1). È dunque agli amanti della sapienza che è indirizzato il suo discorso: “La mia parola non darà consiglio ad ogni vita umana (…) ma all’uomo che ha riflettuto su chi egli sia e donde sia venuto, e dove debba affrettarsi” (I, 27, 1). L’anima, nella tradizione platonica, è incarcerata nel corpo; sicché vanno limitati tutti gli elementi che la legano ad esso e intralciano la contemplazione del divino (che è in noi e fuori da noi). Uno dei maggiori ostacoli al distacco dalle passioni e alla contemplazione è il piacere, motivo per cui è preferibile condurre una vita sobria e morigerata, che fra le altre cose prevede di cibarsi dell’essenziale: “Dai mali ci libera l’alimentazione senza carni di animali, semplice e accessibile a tutti, procurando pace al ragionamento che ci fornisce i mezzi di salvezza” (I, 47, 2).

Sacrifici animali

A partire dal secondo libro l’argomentazione sale, per così dire, di livello. Il significato profondo della dieta vegetariana non sta solo nel nostro interesse, ovvero la tutela della nostra salute, fisica e psichica, ma anche nel rispetto della vita degli animali, che in quanto tale possiede una dignità intrinseca. Porfirio si concentra sul tema del sacrificio. Un’obiezione che veniva opposta alle istanze animaliste dei filosofi vegetariani era la seguente: gli dei apprezzano i sacrifici animali, conseguentemente ucciderli è lecito. Porfirio rileva che “la divinità guarda al carattere di sacrifica” (II, 15, 3) e non al tipo o alla quantità di cibo sacrificato. Osserva anzi che, al di là del sacrificio esteriore, il modo migliore per onorare il dio è “un silenzio puro con pensieri puri a lui rivolti” (II, 34, 2).

Il nostro filosofo ricostruisce la storia del sacrificio che, a suo dire, sarebbe iniziata con l’offerta di semplici ciuffi d’erba, foglie, frutta, cereali, focacce, olio, fiori. L’utilizzo di animali sarebbe una degenerazione di quella ritualità. A chi afferma che il dio ci ha dato gli animali per il nostro uso (ivi incluso il sacrificio), si risponderà: “Quando sono sacrificati gli animali, egli arreca loro qualche danno, dato che sono privati dell’anima. Quindi non vanno sacrificati” (II, 12, 3). La sacerdotessa di Delfi, richiesta di un responso da un cittadino di Magnesia che era solito sacrificare un gran numero di animali, comunicò che meglio di tutti onorava gli dei Cleante di Methidrio: non uccidendo buoi né facendo a pezzi vittime, ma lucidando e decorando statue e immagini sacre e offrendo incenso e farina.

Porfirio, replicando l’argomentazione di Teofrasto, risponde inoltre a chi obietta che anche le piante vanno rispettate, assumendo la più radicale delle posizioni vegetariane, quella del fruttarismo: “Esse fanno cadere i loro frutti, e la raccolta di frutti non è accompagnata dalla loro distruzione, come avviene quando gli animali perdono la loro anima” (II, 13, 1). Per la stessa ragione nel libro III ricorderà che ci si può nutrire anche raccogliendo i grani dei cereali e dei legumi quando sono secchi e cadono a terra e muoiono. In ogni caso, “fra tutti il più grande e il primo è l’aiuto che ci viene dai frutti e di essi soltanto si deve far offerta agli dèi e alla terra che li produce. Questa è, infatti, il focolare comune degli dèi e degli uomini e tutti chini su di essa, in quanto nostra nutrice e madre nostra, dobbiamo celebrarla con inni e amarla teneramente perché ci ha generati” (II, 32, 1). Siamo così approdati da una prospettiva animalista ad una più ampia visione di stampo proto-ecologista.

Sensazione e ragione

Il terzo libro è il più importante dell’opera. Tocca tanto le corde della razionalità quanto quelle dell’emotività. Al centro stavolta non ci sono gli uomini o gli dei, ma gli stessi animali e il loro diritto alla vita al benessere.

I sostenitori della dieta carnivora/onnivora affermano che la giustizia debba esercitarsi solo tra gli uomini e non vada estesa agli animali, che sono privi di ragione. Porfirio replica sulla scia di Pitagora che “è razionale ogni anima la quale ha a che vedere con la sensazione e la memoria” (III, 1, 4), di conseguenza la giustizia va estesa a ogni animale.

In polemica con gli Stoici, Porfirio osserva che non solo gli animali sono ragionevoli, ma sono anche in grado di pronunciare “discorsi” utilizzando i linguaggi a loro propri. E, oltre a comunicare tra loro, talvolta sono anche in grado di farsi capire dagli uomini e di comprendere quanto questi dicono. Nei capitoli VII e VIII il discorso si estende alle passioni e alle sensazioni che gli animali condividono con gli uomini. In certi ambiti gli animali mostrano anzi una superiorità, come ad esempio nella capacità di avvertire immediatamente le condizioni dell’aria e i cambiamenti del tempo. (Pensiamo, a tale proposito, ai casi di animali che mostrano comportamenti “strani”, prima di eventi quali terremoti o alluvioni).

Dunque, perché ci si ostina ad uccidere gli animali? “Se per vivere ci trovassimo ad aver bisogno dell’uccisione degli animali e di mangiarne la carne, così come abbiamo bisogno dell’aria, dell’acqua, delle piante e dei frutti, senza i quali è impossibile vivere, la nostra natura si troverebbe necessariamente coinvolta in questa ingiustizia” (III, 18, 4). Ma non è questo il caso dell’uomo che, a differenza di una tigre o di un leone, non è naturalmente costretto a nutrirsi di altri animali. Facendo proprie le affermazioni di Plutarco, Porfirio rileva che “è azione mostruosamente innaturale e orribile condurre gli animali all’uccisione e farli cuocere, insozzandoci di assassinio non allo scopo di nutrirsene o soddisfare la fame, ma per fare del proprio piacere e della propria ghiottoneria lo scopo della nostra vita” (III, 18, 5).

Tutte affermazioni in perfetta continuità con la linea di pensiero di Pitagora e Platone, nella quale tutti i viventi sono legati da una parentela universale e, successivamente alla morte, le anime degli uomini possono incarnarsi in corpi animali e viceversa.

L’argomento dei casi marginali
Arriviamo così al punto centrale dell’opera, che è oggi (e lo è stato negli ultimi 50 anni) il vero terreno di scontro tra i propugnatori dell’uguaglianza fra le specie e chi sottolinea l’eccezionalità della specie umana. Se concedessimo, come affermano questi ultimi, che gli animali non hanno ragione, e per questo risultano estranei al perimetro della giustizia, per lo stesso motivo dovremmo disporre come meglio crediamo, anche vivisezionandoli, uccidendoli e mangiandoli, degli esseri umani incapaci di ragionare.

È il cosiddetto argomento dei casi marginali (o della sovrapposizione delle specie), portato avanti come vessillo della causa antispecista già dagli anni ‘70 del XX secolo da Singer, Regan, Linzey, Jamieson e dai loro epigoni, ma, come osservato da Dombrowski, esposto per la prima volta da Porfirio nel III secolo. Recita infatti il capitolo 19 del De abstinentia: “Ma quando vediamo molti uomini vivere guidati soltanto dal senso, senza far uso dell’intelletto e della ragione e, inoltre, molti superare le bestie più terribili in crudeltà, in collera, in avidità (…) come non è assurdo pensare che abbiamo rapporti di giustizia con essi, mentre non ne abbiamo nessuno con il bue (…), il cane (…), le pecore? Come non è tutto ciò estraneo alla ragione?” (III, 19, 3).

In altre parole, se solo gli esseri umani meritano uno status morale pieno ed uguale, allora deve esserci una proprietà, una caratteristica, che è presente in tutti gli esseri umani e solo negli esseri umani e in nessun altro animale. Ma, evidentemente, tale proprietà non c’è. Poniamo che tale proprietà sia la ragione (oppure la capacità di sentire dolore): ci sono alcuni umani (i cosiddetti casi marginali) che non la posseggono, ma è presente in alcuni o molti animali (gli animali soffrono, gli animali hanno processi mentali). La logica ci porterebbe allora a concludere che un caso marginale-uomo ha meno diritto di vivere di una scimmia o un delfino. Insomma, non c’è modo di difendere l’affermazione secondo cui tutti e solo gli esseri umani meritano uno status morale pieno.

Ci sono esseri umani che non fanno uso della ragione o lo fanno in maniera non determinabile o rudimentale, talvolta ad un livello inferiore a quello di altri mammiferi? Certamente, pensiamo ai neonati, a persone con ritardi mentali congeniti o acquisiti, a pazienti in stato di coma. Applicando come criterio distintivo l’esercizio della ragione, tali soggetti potrebbero essere soppressi. E, in effetti, questo già avviene in quei casi in cui, nonostante le proteste dei familiari, ospedali e tribunali terminano le vite di esseri umani ritenendole “non degne di essere vissute”. Se invece poniamo la sensibilità al dolore come criterio sufficiente a possedere uno status morale pieno, allora è evidente che animali (indipendentemente dalla loro razionalità) e umani si trovano sullo stesso piano. Anche questa strada, però, non è esente da ostacoli: ad esempio, un uomo che non ha capacità di “sentire”, o la cui sensibilità è molto attenuata o non determinabile, sarebbe per questo sacrificabile? Di nuovo, molti medici e giudici risponderebbero di sì. Ma di questo tratteremo in altra occasione.

Quel che è certo è che, secondo Porfirio, non ci è lecito fare uso degli animali secondo il nostro capriccio, dal momento che essi sono in possesso di un loro valore inerente. Regan distinguerà tra agenti morali (gli uomini “normali”) e pazienti morali (i casi marginali umani appena descritti e gli animali). Sia gli agenti sia i pazienti sono soggetti di vita: ma è nella responsabilità, e appunto nella moralità, degli agenti, rendere queste vite migliori o peggiori. Il punto è che tale responsabilità non viene attuata. Basti pensare al caso delle sperimentazioni nel settore della cosmesi (prodotti finiti o ingredienti), dove il diritto fondamentale dell’animale, vivere, è subordinato a un interesse marginale di una donna o un uomo, quello estetico. Oppure ai circhi, dove il diritto degli animali a un’esistenza libera cede il passo al dritto degli umani di divertirsi vedendoli in una gabbia frustati da un domatore. O alle pellicce, dove il diritto alla vanità di una donna prevale su quello alla vita dei visoni.

Conclusione

Ma torniamo al testo di Porfirio, che riprende ora di mira quanti affermano che gli animali sono stati creati per servire ai nostri scopi: “Se definissimo sulla base dell’utile ciò che è creato per il nostro bene, dovremmo subito ammettere che noi stessi siamo stati creati nell’interesse degli animali più funesti, come i coccodrilli” (III, 20, 6). Di seguito viene ribadito che gli animali, oltre a sentire, gioire e soffrire, pensano: “Non diciamo dunque (…) che le bestie, anche se la loro intelligenza è meno acuta e il loro intelletto è inferiore al nostro, sono prive di intelletto e di intelligenza, né che non posseggono la ragione, ma diciamo che ne posseggono una debole e torbida, come un occhio debole e annebbiato” (III, 23, 8). La specie uomo e le altre specie animali non differiscono per l’essenza, ma per l’esattezza della ragione. Il discrimine non sarebbe qualitativo ma quantitativo: un più o un meno di ragione.

L’ultima sezione del De abstinentia è un viaggio negli usi e nei costumi di diversi popoli e tribù, orientali e occidentali, dagli Egiziani, agli Esseni, ai Persiani, ai Cretesi, che mostra come gli uomini santi di ogni luogo ed epoca si astengono dal mangiare altri corpi. Sta a noi seguire il loro esempio per evitare che l’anima sia contaminata e trascinata “verso ciò che è estraneo alla sua natura” (IV, 20, 11).

Bibliografia essenziale:
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